16 luglio 2017

Il giornalista scomparso


Il signor Armando Penna, direttore di un’importante testata nazionale con sede a Milano, si era messo in testa di assumere un giornalista italiano. Gli unici requisiti erano che sapesse scrivere in un italiano decente e che avesse assimilato le basi del giornalismo, quelle che gli anglosassoni chiamano le Five Ws. Si suppone infatti, aveva scritto a chiare lettere, che un qualunque giornalista dovrebbe prima di tutto in un articolo riportare le risposte alle seguenti domande: cosa è successo (What) dove (Where) quando (When) e chi era coinvolto (Who). I più dotati avrebbero potuto poi anche azzardare un’ipotesi sul perché (Why).

Suggestionato dal fatto che ormai il nostro paese è stracolmo di tuttologi pronti ad esprimere per iscritto le proprie opinioni, anche se principalmente sulle reti sociali, si preparava a fronteggiare frotte di aspiranti, come quando si tratta di confutare decenni di studi scientifici sull’efficacia dei vaccini.
Invece ha rimediato deserti sconfinati di silenzio, interrotti da branchi di presuntuosi che contestavano questa sua assurda richiesta di attenersi ai fatti o, ancora peggio, di controllare le fonti.

Un ragazzo gli ha detto che persino Roberto Saviano aveva venduto milioni di copie di un libro che si apre con la suggestiva immagine dei cinesi morti che cadevano a decine dai container nel porto di Napoli. Ma peccato che quella storia non avesse nessun riscontro, che non risultasse negli archivi dei tribunali nessuna inchiesta che pure si sarebbe dovuta aprire per un caso tanto grave. A Saviano glielo aveva raccontato suo cugino, che aveva un amico che aveva una ragazza che aveva un fratello che lavorava come gruista nel porto. Quello che si dice una “fonte riservata”. E allora, gli aveva detto il ragazzo, se Saviano non controlla le fonti perché mai dovrei farlo io? L’importante è che la storia sia appetibile per il pubblico e faccia audience. Non voleva, il direttore, che il suo giornale vendesse più copie?

Un’altra ragazza si è dichiarata disponibile a scrivere una breve colonna quotidiana, però per favore che non la mandassero in giro sul posto a vedere quello che succedeva nel mondo. Insomma, il mestiere del giornalista potrebbe essere pericoloso, perché mai andare nei paesi dove c’è la guerra, potrei rischiare di essere rapita dall’ISIS o arrestata dalla polizia turca. Come è successo a quel Gabriele Del Grande, un pazzo che si ostina a viaggiare e a intervistare persone vere, quando al giorno d’oggi basta andare sul profilo facebook del terrorista o del protagonista dell’ultimo fattaccio di cronaca nera per scrivere un bell’articolo d’effetto. Ma insomma lo vogliamo ringraziare il signor Zuckerberg che ci ha fornito a poco prezzo la schedatura di tutti gli abitanti del pianeta con un’efficienza da fare invidia alla STASI?

Il direttore le ha provate tutte, persino a buttarla sul ridere assicurando che lo stipendio sarebbe stato pagato in euro e in base all’attendibilità degli articoli e non in base ai “like” ricevuti o con una somma inversamente proporzionale alla lunghezza dei periodi. Ma alla fine della risata si è immalinconito anche lui.

Può darsi che, a dispetto delle apparenze, la situazione non sia ancora così disperata da rendere appetibile un lavoro che prevede di dover essere ospite settimanalmente al programma di Fabio Fazio. Resta il fatto che il più grande quotidiano italiano ha come vicedirettore un tizio che si permette di giudicare un’intera categoria in base a chiacchiere di corridoio, sputando sentenze comodamente seduto al suo posto strapagato quando sarebbe, lui sì, bisognoso di esperienze pratiche. E soltanto un paese squinternato come il nostro può continuare a dargli retta e ad ascoltare i suoi sproloqui, come se fossero mai valsi qualcosa.

(Ogni riferimento è puramente casuale)

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