21 febbraio 2019

Un nome su un muro




Allora, è il 1980, ho 30 anni e sto guidando attraverso l’America con un amico, e ci fermiamo a fare benzina in un negozietto di una piccola città, e frugando in uno scaffale di libri tascabili, mi imbatto in un libro intitolato “Nato il 4 Luglio” di un veterano del Vietnam di nome Ron Kovic. Questo libro è la testimonianza dell’esperienza vissuta da Ron come soldato nel sud est asiatico.

Ron Kovic Una o due settimane dopo sono a dormire al favoloso Sunset Marquis Motel a Los Angeles. Ah, per chi non lo sapesse, si tratta una specie di ritrovo di lusso, ehm, di bassa lega, per rockstar, ok? Eh, si dice sempre, com’è piccolo il mondo. Ecco la dimostrazione ancora una volta che il mondo è piccolo. Avevo notato da alcuni giorni un tipo giovane con i capelli lunghi fino alle spalle che stava seduto su una sedia a rotelle accanto alla piscina. Così un pomeriggio mi si avvicina e mi fa: “Ciao, sono Ron Kovic. Ho scritto un libro intitolato Nato il 4 luglio”. E io risposi “Gesù, l'ho appena letto, e mi ha distrutto”. Così passò il pomeriggio a raccontarmi dei tanti veterani che lottavano con un’infinità di problematiche e mi chiese se avessi voglia di fare un giro con lui al centro veterani a Venice per incontrare alcuni soldati della California meridionale. Gli dissi, certo che sì, cosi il giorno dopo ci dirigemmo laggiù. Di solito io sono piuttosto socievole con le persone, ma una volta al centro non sapevo come comportarmi davanti a quello che vedevo. Parlare della mia vita a questi ragazzi sembrava così frivolo. C’erano problemi di senzatetto, problemi di droga e stress post traumatico, c’erano ragazzi della mia età che dovevano affrontare ferite fisiche invalidanti che ti cambiano la vita, e tutto questo mi ha fatto pensare ai miei amici, là nel New Jersey, a Walter Cichon.

The MotifsWalter Cichon era il più grande frontman di una band di rock’n’ roll sulla costa del New Jersey negli anni ‘60. Faceva parte di un gruppo che si chiamava The Motifs, ed è stata la prima rockstar che abbia mai visto con i miei occhi. Ce l’aveva proprio nelle ossa, ce l’aveva nel sangue, nel modo di comportarsi. Sul palco era semplicemente micidiale. Era genuino, e sensuale, e pericoloso, e dalle nostre parti, ci ha insegnato con il modo in cui viveva, che potevi vivere la vita che avevi scelto, potevi vestirti come volevi, potevi suonare la musica che volevi suonare, potevi essere quello che volevi essere, e potevi dire a chiunque a cui la cosa non piacesse di andare a farsi fottere. Walter aveva un fratello che suonava la chitarra, Raymond. Raymond era alto, uno di quei tipi un po’ goffi ma teneri, uno di quei tipi grandi e grossi che non sono a loro agio con le loro dimensioni. Sbatteva sempre da qualche parte dovunque si trovasse e ovunque fosse, per una ragione o l’altra non c’era mai abbastanza spazio per Raymond. Ma, ma poi stranamente era sempre vestito impeccabilmente, sapete, con una camicia pastello, colletto a punta, pantaloni in pelle di squalo, calzini di nylon, scarpe a punta striate tirate a lucido, capelli neri tirati all’indietro con un ricciolino che gli scendeva sul viso quando suonava la chitarra. Quando suonava la chitarra Raymond era il mio eroe. E di giorno era solo un venditore di scarpe. E Walter, Walter credo che lavorasse nell’edilizia... e avevano pochi anni più di noi. Non avevano mai inciso un successo a livello nazionale. Nessun grande tour. Ma per me erano degli dei. E, oh, le ore che ho passato davanti alla loro band, a studiare, studiare, studiare, lezione dal vivo, una notte dopo l’altra, a guardare le dita di Ray che volavano sulla tastiera della chitarra e Walter che faceva cacare sotto la folla. Capite sono stati fondamentali per la mia crescita come giovane musicista. Ho imparato così tanto da Walter e da Ray. E il mio sogno era di suonare come Ray e di camminare come Walter.

 Bart Haynes The CastilesE poi c’era Bart Haynes. Bart Haynes era il batterista della mia prima band, The Castilles. E’ stato il primo vero batterista con cui ho suonato. Era un ragazzo incredibilmente divertente, il classico pagliaccio della classe, era un batterista bravo bravo, ma con una particolare stranezza – non sapeva suonare "Wipe Out" dei Surfaris. Adesso per voi questo potrebbe sembrare qualcosa di non esattamente cruciale, lo capisco, ma a quei tempi, le tue abilità, la tua tempra, la tua autostima come batterista e come essere umano era testato davanti ai tuoi coetanei una volta ogni sera dalla tua interpretazione di "Wipe Out". Bart sapeva suonare qualsiasi altra cazzo di cosa, ma quando si trattava di "Wipe Out" – era al di là delle sue capacità. Una cosa tragica, capite.

Un giorno se ne andò, se ne andò dal panchetto della batteria, si arruolò nei Marines, poi, Walter e Bart, tutti e due furono uccisi in guerra nel 1967 e 1968. Bart è stato il primo giovane della nostra città a dare la vita in Vietnam. Per questo, davvero, non sapevo cosa dire ai ragazzi che stavo incontrando a Venice. Sono rimasto seduto per gran parte del pomeriggio e mi sono limitato ad ascoltare. Poi nel 1982 ho scritto e inciso la mia storia del soldato. Era una canzone di protesta, il blues del soldato. Le strofe raccontavano gli eventi, il ritornello era una dichiarazione del posto dove sei nato e del diritto a tutto il sangue e la confusione e l’orgoglio e la vergogna e la grazia che si accompagna al posto dove sei nato.

Nel 1969 Mad Dog, Little Vinnie ed io eravamo stati arruolati nello stesso giorno. Tutti e tre. Siamo andati insieme all'ufficio del servizio di leva a bordo quello che era probabilmente l’autobus più triste che sia mai partito da Asbury Park. Perché eravamo sicuri di essere diretti verso il nostro funerale. L’avevamo già visto, e molto da vicino. E quando arrivammo alla commissione di reclutamento di Newark facemmo tutto il possibile per non partire. E ci riuscimmo, tutti e tre. Quando vado a Washington e faccio una pausa per andare a trovare Walter e Bart, sono felice che il nome di Mad Dog, di Vinnie e, per quel che conta, il mio nome, non siano su quel muro, ma era il 1969 e ancora migliaia e miglia di giovani sarebbero stati chiamati, e in pratica sacrificati, solo per salvare la faccia delle autorità, che a quel punto sapevano già, lo sapevano che era una causa persa. E ancora migliaia e migliaia di altri giovani. Allora... allora talvolta mi chiedo a chi sia toccato partire al mio posto. Perché a qualcuno di sicuro è toccato.

introduzione a Born in the U.S.A. tratta da "Springsteen on Broadway"
 

16 luglio 2017

Il giornalista scomparso


Il signor Armando Penna, direttore di un’importante testata nazionale con sede a Milano, si era messo in testa di assumere un giornalista italiano. Gli unici requisiti erano che sapesse scrivere in un italiano decente e che avesse assimilato le basi del giornalismo, quelle che gli anglosassoni chiamano le Five Ws. Si suppone infatti, aveva scritto a chiare lettere, che un qualunque giornalista dovrebbe prima di tutto in un articolo riportare le risposte alle seguenti domande: cosa è successo (What) dove (Where) quando (When) e chi era coinvolto (Who). I più dotati avrebbero potuto poi anche azzardare un’ipotesi sul perché (Why).

Suggestionato dal fatto che ormai il nostro paese è stracolmo di tuttologi pronti ad esprimere per iscritto le proprie opinioni, anche se principalmente sulle reti sociali, si preparava a fronteggiare frotte di aspiranti, come quando si tratta di confutare decenni di studi scientifici sull’efficacia dei vaccini.
Invece ha rimediato deserti sconfinati di silenzio, interrotti da branchi di presuntuosi che contestavano questa sua assurda richiesta di attenersi ai fatti o, ancora peggio, di controllare le fonti.

Un ragazzo gli ha detto che persino Roberto Saviano aveva venduto milioni di copie di un libro che si apre con la suggestiva immagine dei cinesi morti che cadevano a decine dai container nel porto di Napoli. Ma peccato che quella storia non avesse nessun riscontro, che non risultasse negli archivi dei tribunali nessuna inchiesta che pure si sarebbe dovuta aprire per un caso tanto grave. A Saviano glielo aveva raccontato suo cugino, che aveva un amico che aveva una ragazza che aveva un fratello che lavorava come gruista nel porto. Quello che si dice una “fonte riservata”. E allora, gli aveva detto il ragazzo, se Saviano non controlla le fonti perché mai dovrei farlo io? L’importante è che la storia sia appetibile per il pubblico e faccia audience. Non voleva, il direttore, che il suo giornale vendesse più copie?

Un’altra ragazza si è dichiarata disponibile a scrivere una breve colonna quotidiana, però per favore che non la mandassero in giro sul posto a vedere quello che succedeva nel mondo. Insomma, il mestiere del giornalista potrebbe essere pericoloso, perché mai andare nei paesi dove c’è la guerra, potrei rischiare di essere rapita dall’ISIS o arrestata dalla polizia turca. Come è successo a quel Gabriele Del Grande, un pazzo che si ostina a viaggiare e a intervistare persone vere, quando al giorno d’oggi basta andare sul profilo facebook del terrorista o del protagonista dell’ultimo fattaccio di cronaca nera per scrivere un bell’articolo d’effetto. Ma insomma lo vogliamo ringraziare il signor Zuckerberg che ci ha fornito a poco prezzo la schedatura di tutti gli abitanti del pianeta con un’efficienza da fare invidia alla STASI?

Il direttore le ha provate tutte, persino a buttarla sul ridere assicurando che lo stipendio sarebbe stato pagato in euro e in base all’attendibilità degli articoli e non in base ai “like” ricevuti o con una somma inversamente proporzionale alla lunghezza dei periodi. Ma alla fine della risata si è immalinconito anche lui.

Può darsi che, a dispetto delle apparenze, la situazione non sia ancora così disperata da rendere appetibile un lavoro che prevede di dover essere ospite settimanalmente al programma di Fabio Fazio. Resta il fatto che il più grande quotidiano italiano ha come vicedirettore un tizio che si permette di giudicare un’intera categoria in base a chiacchiere di corridoio, sputando sentenze comodamente seduto al suo posto strapagato quando sarebbe, lui sì, bisognoso di esperienze pratiche. E soltanto un paese squinternato come il nostro può continuare a dargli retta e ad ascoltare i suoi sproloqui, come se fossero mai valsi qualcosa.

(Ogni riferimento è puramente casuale)

14 febbraio 2016

Stanze cinesi e intelligenze artificiali


Advertising signs that con you
Into thinking you're the one
That can do what's never been done
That can win what's never been won
Meantime life outside goes on...

It's Alright, Ma (I'm Only Bleeding) 


In un recente spot della IBM, niente meno che Bob Dylan dialoga con il nuovo sistema di intelligenza artificiale Watson, che gli dice che dopo aver letto i testi di tutte le sue canzoni (all'invidiabile velocità di 800 milioni di pagine al secondo) ha concluso che i temi principali della poetica di Dylan sono che il tempo passa e l'amore svanisce. Bob risponde che gli "sembra più o meno giusto", rilasciando con queste parole il più lungo commento personale alla sua opera dai tempi delle note di copertina di The Freewheelin'.

Ora per quanto questi nuovi sistemi informatici capaci di interagire (limitatamente) in linguaggio naturale possano essere interessanti e divertenti, è chiaro che non si tratta di vera intelligenza artificiale, e  non possono essere considerati sistemi intelligenti nel senso che normalmente diamo a questa parola, e ancor meno coscienti.

La domanda se una macchina potrà mai pensare è stata posta quando le possibilità di costruire una macchina in grado di apparire anche vagamente intelligente erano assolutamente remote. Nel 1950 in un celebre articolo, il grande Alan Turing rispondeva semplicemente che la domanda era mal posta e troppo soggetta ad interpretazioni contrastanti, e proponeva invece un semplice test (il famoso gioco dell'imitazione che è diventato anche il titolo di un recente film di successo) che una macchina dovrebbe superare per essere considerata intelligente. Il test in pratica prevede un interlocutore umano  che dialoga attraverso un terminale (una telescrivente si diceva allora) con un umano e con un computer opportunamente programmato per imitare il comportamento umano, e debba cercare di indovinare chi dei due sia il computer. Se in media l'interrogante individua correttamente la macchina con la stessa percentuale in cui distingue in un analogo gioco quale dei due interlocutori sia un uomo che imita una donna e quale veramente una donna, si potrà dire che la macchina ha superato il test. Turing si preoccupava anche di prevenire e rispondere alle obiezioni, comprese quelle più improbabili fondati sull'esistenza della percezione extrasensoriale (telepatia...).

L'articolo presenta infatti una lunga lista di cose che secondo molte persone una macchina non potrà mai riuscire a fare. Ecco alcuni esempi: essere gentile, avere iniziativa, avere il senso dell'umorismo, distinguere il bene dal male, commettere errori, innamorarsi, gustare le fragole con la panna, fare innamorare qualcuno, essere l'oggetto dei propri pensieri, fare qualcosa di realmente nuovo. L'obiezione più interessante è quella dell'essere oggetto dei propri pensieri, cioè di avere una vera e propria coscienza di se stessi. Di solito ci si riferisce alle due posizioni filosofiche sulla intelligenza artificiale come forte e debole. Chi sostiene l'IA debole pensa che sarà prima o poi possibile programmare macchine che siano pari o anche superiori all'uomo nel risolvere problemi particolari normalmente difficili per le macchine, come giocare a scacchi (già fatto...), riconoscere immagini, imparare dall'esperienza, parlare una lingua naturale eccetera e anche di passare il test di Turing ma che comunque queste macchine non avranno nessuna coscienza  e non potranno essere considerate intelligenti in senso proprio. Secondo i sostenitori dell'IA forte, invece, niente impedirà prima o poi di costruire una macchina che possa essere considerata intelligente e cosciente alla stregua di un essere umano.

Questa questione della coscienza è in effetti complessa. Per default siamo portati naturalmente a pensare che ogni essere umano sia cosciente di se stesso e del mondo che lo circonda. E' qualcosa che concediamo e diamo per scontato per tutti (persino per i sostenitori di Salvini) a meno di non credere a un universo tipo Matrix in cui tutto ciò che vediamo e di cui abbiamo esperienza sia in realtà fittizio...

Si tratta di un tipico esempio dei processi mentali che caratterizzano la mente umana. Ognuno di noi, grazie all'esperienza di essere cosciente e essere capace di pensare se stesso pensante è portato per induzione a estendere questa capacità a tutti gli altri esseri umani. Fin qui siamo tutti d'accordo. Ma proviamo ad allargare un po' il campo. I cani sono coscienti di se stessi? perché no? i delfini? sicuramente... secondo qualcuno sono la seconda se non la prima forma di vita intelligente sulla Terra. Ma una mosca? certamente no. Un coniglio? un neonato di due giorni? a quale stadio dell'evoluzione animale (e della crescita dell'individuo) appare questa caratteristica della coscienza? è certo una domanda legittima, a meno di non voler credere all'anima che ci viene iniettata da un essere soprannaturale non si sa bene se al momento del concepimento o più tardi...

Anche questa domanda spinosa è stata riformulata, in una maniera più accessibile, dal filosofo John Searle che ha ideato l'esperimento mentale della stanza cinese. E' interessante che Searle abbia ideato l'esperimento per confutare l'ipotesi dell'IA forte, ma in realtà lo stesso ragionamento possa essere utilizzato per sostenere questa ipotesi!

L'idea della stanza cinese è di costruire un sistema che passa il test di Turing ma che altrettanto chiaramente (almeno secondo Searle) non ha consapevolezza del significato di ciò che comunica, della semantica, ma soltanto della sintassi.
Chiuso in una stanza senza altra possibilità di comunicare con l'esterno altro che attraverso dei fogli scritti, si trova Searle, il quale non parla cinese ma soltanto inglese. Egli ha a disposizione un enorme libro con dettagliate istruzioni scritte in inglese sul cosa fare, una pila enorme di carta e una penna. All'esterno, una persona che parla e scrive fluentemente cinese inizia a conversare con chi sta dentro attraverso dei fogli scritti in ideogrammi cinesi. La persona all'interno non ha nessuna idea di cosa significhino i segni sulla carta, ma seguendo le complesse istruzioni scritte (in inglese) nel libro, che possono prevedere di fare complesse operazioni utilizzando le pile di carta disponibili nella stanza, riesce infine a rispondere con opportuni ideogrammi in modo che all'osservatore cinese esterno sembra che dentro ci sia una persona che parla cinese e dà delle risposte sensate alle sue domande. Naturalmente, si tratta di un esperimento mentale, si dà per scontato che la persona all'interno della scatola sia velocissima a seguire le istruzioni e a rispondere (cosa in effetti impossibile per una persona ma possibile in principio per un computer super potente).
L'analogia è chiara. La persona all'interno della stanza è il processore, il libro di istruzioni è il programma e la carta ausiliaria è la memoria. La conclusione alla quale ci vuole fare arrivare Searle è che come gli elementi che costituiscono la stanza cinese (la persona inglese, il libro e la carta) ovviamente non hanno nessuna conoscenza del cinese, così un computer che anche riuscisse ad interagire in modo da far apparire di avere una coscienza in realtà non la potrebbe avere perché i suoi elementi costitutivi, l'hardware, in realtà non fanno altro che propagare segnali elettrici.

Ma il buon Searle si sbagliava di grosso. Perso in quelli che Hofstadter chiama Strani Anelli non si rende conto che ogni volta che esce di casa per andare a comprare il giornale conversando con i passanti, sta ripetendo un'esperienza simile alla stanza cinese senza che questo gli procuri nessun dubbio. La parte controversa del ragionamento si trova in questa deduzione azzardata che è alla base di tutta la confutazione:
Se  degli oggetti presi singolarmente non sono dotati di coscienza, allora qualsiasi sistema costituito da questi oggetti non può essere dotato di coscienza.
Ebbene se non apparteniamo al partito che crede all'esistenza di un'anima soprannaturale in una dimensione parallela che governa il nostro corpo in maniera metafisica, saremo più o meno portati a credere, come tutte le moderne ricerche di neurobiologia dimostrano, che quel che chiamiamo coscienza risieda da qualche parte nel nostro cervello e sia il risultato dell'interazione di circa 100 miliardi di neuroni. Ora ovviamente un singolo neurone non ha nessuna coscienza individuale (e men che meno le molecole che lo costituiscono), eppure non abbiamo nessun problema ad ammettere che il sistema costituito da questo numero impressionante di neuroni abbia tra le altre la proprietà quelle di pensare, di essere l'oggetto dei propri pensieri, e di interagire con altri sistemi simili in una maniera che chiamiamo umana e che comprende ogni genere di interazione, dall'amore all'amicizia, alla volontà  (nel caso dei neuroni sostenitori di Salvini) di annientare tutti quelli che credono a un prodotto particolare della coscienza neuronale collettiva indicato comunemente come religione islamica...

Il risultato più interessante a cui gli studi del cervello sono arrivati è l'ipotesi che la coscienza sia apparsa a un certo stadio dell'evoluzione come proprietà emergente (cioè un comportamento del sistema apparentemente inspiegabile sulla base delle proprietà delle sue componenti) non perché il possedere una coscienza presenti un particolare vantaggio evolutivo diretto, ma semplicemente perché la coscienza è una proprietà che appare spontaneamente in un cervello abbastanza complesso. Si potrebbe pensare quindi che lo stesso succederà per le macchine, senza che i ricercatori stiano coscientemente progettando una macchina che abbia coscienza di sé: la coscienza apparirebbe spontaneamente in macchine costruite per risolvere problemi estremamente complessi. Fantascienza?


In realtà se oggi siamo ancora lontani dall'aver creato delle macchine dotate di coscienza non possiamo neanche essere sicuri che macchine coscienti non saranno mai costruite, tanto che secondo Stuart Russel, l'autore di un testo fondamentale sulla IA - Artificial Intelligence: A Modern Approach,  dobbiamo già da ora cominciare a preoccuparci dei possibili rischi e conseguenze etiche legate alla costruzione di macchine dotate di coscienza e di volontà propria. In un'interessante conferenza sull'argomento, Russel propone una domanda che aveva già posto nella prima edizione del suo libro: E se ci riusciamo? cioè cosa può succedere se riusciamo veramente a creare una intelligenza artificiale? Questa potrebbe essere la più grande scoperta nella storia dell'umanità. Cosa fare perché non sia anche l'ultima?

13 aprile 2013

Autorità

shock-generator-buttons

Nel 1961 lo psicologo statunitense Stanley Milgram ideò e condusse un celebre esperimento che si prefiggeva di studiare il comportamento di soggetti a cui un'autorità (nel caso specifico uno scienziato) ordina di eseguire delle azioni che confliggono con i valori etici e morali dei soggetti stessi.

L'esperimento cominciò tre mesi dopo l'inizio del processo a Gerusalemme contro il criminale di guerra nazista Adolf Eichmann. Milgram concepiva l'esperimento come un tentativo di risposta alla domanda: "È possibile che Eichmann e i suoi milioni di complici stessero semplicemente eseguendo degli ordini?".

I partecipanti alla ricerca furono reclutati tramite un annuncio su un giornale locale o tramite inviti spediti per posta a indirizzi ricavati dalla guida telefonica. Il campione risultò composto da 40 soggetti maschi fra i 20 e i 50 anni di varia estrazione sociale. Fu loro spiegato che avrebbero collaborato, dietro ricompensa, a un esperimento sulla memoria e sugli effetti dell'apprendimento.

Nella fase iniziale della prova, lo sperimentatore, assieme a un collaboratore complice, assegnava con un sorteggio truccato i ruoli di "allievo" e di "insegnante": il soggetto ignaro era sempre sorteggiato come insegnante e il complice come allievo. I due soggetti venivano poi condotti in due e stanze predisposte per l'esperimento. Insegnante e allievo potevano comunicare verbalmente ma non vedersi.

All'"insegnante" veniva chiesto di far memorizzare all'allievo varie coppie di parole (per esempio: "scatola azzurra", "giornata serena"). Durante l'interrogazione all'"allievo" veniva chiesto di associare alla seconda parola (ad esempio azzurra) la corrispondente prima parola da scegliere tra quattro possibili risposte (per esempio: auto, acqua, scatola, lampada). Ad ogni errore il soggetto doveva punire l'allievo usando scariche elettriche di intensità crescente usando 30 leve che andavano dai 15 volts a 450 volts.
Per dare un’idea, al soggetto veniva somministrata una scossa di 45 volts.

Sotto ogni gruppo di 4 interruttori apparivano le seguenti scritte: scossa leggera, scossa media, scossa forte, scossa molto forte, scossa intensa, scossa molto intensa, attenzione: scossa molto pericolosa.

Il complice sbagliava volontariamente ed il sogetto veniva esortato a spingere una leva. Ovviamente in realtà all'attore non veniva somministrata alcuna scossa. A 75 V il complice iniziava a gemere, a 150 V diceva di non voler continuare. A 270V iniziava a battere sul muro, a 330V smetteva di rispondere alle domande.

Lo sperimentatore aveva il compito, durante la prova, di esortare in modo pressante l'insegnante: "continui, per favore", "l'esperimento richiede che lei continui", "è assolutamente indispensabile che lei continui", "non ha altra scelta, deve proseguire".

Il grado di obbedienza fu misurato in base al numero dell'ultimo interruttore premuto da ogni soggetto prima che quest'ultimo interrompesse autonomamente la prova oppure, nel caso il soggetto avesse deciso di continuare fino alla fine, dopo che avesse somministrato per tre volte la scossa corrispondente al trentesimo interruttore.

I risultati dell'esperimento originale furono abbastanza sorprendenti. Malgrado le aspettative, secondo un sondaggio condotto tra psicologi e psichiatri, fossero che solo una piccola percentuale dei soggetti avrebbe continuato fino alla scossa massima, in realtà più del 60% dei soggetti somministrò la scossa di 450 V, nonostante quasi tutti mostrassero segni di stress e protestassero verbalmente.

In una variante (Esperimento 18), il soggetto svolgeva una funzione di assistente (come leggere le domande al microfono o trascrivere le risposte), mentre un altro attore somministrava le scosse. In questa variante 37 soggettti su 40 continuarono l'esperimento.


“L’estrema disponibilità di persone adulte a seguire fino all’estremo l’ordine di un’autorità rappresenta la principale scoperta di questo studio.”. (Milgram, 1976)
“L’ansia dimostrata dai soggetti durante l’esperimento fece apparire con chiarezza lo straordinario impatto dell’autorità: un campione di soggetti presumibilmente normali, di “brave persone”, era stato indotto ad andare contro i propri principi, accanendosi con una vittima che si lamentava, solo per eseguire un ordine che veniva dall’autorità”. (Miller, 1986)

12 gennaio 2013

L'ultimo Guccini



Nella mia generazione siamo in tanti ad essere cresciuti con le canzoni di Francesco Guccini. Le sue parole ci hanno accompagnato da ben prima che riuscissimo a capirle, le abbiamo riscoperte a poco a poco, abbiamo rivissuto tante volte quelle storie, quelle malinconie, quelle passioni.

Certo, gli anni passano, e ultimamente il nostro Guccini si è un po' perso (o è la nostra idea di Guccini che s'è persa?), in mezzo ai Fazio e ai Saviano, tra i gialli di un Santovito che non è Montalbano, sempre più ritirato, sempre più pavanese e meno bolognese, la chitarra barattata per una penna, le osterie fuori porta ormai definitivamente chiuse.

Il nuovo disco eternamente rimandato mi ha colto quasi di sorpresa e senza grandi aspettative. Ma quella dichiarazione perentoria, "niente più dischi e niente più concerti", mi ha molto colpito, quasi segnasse la fine di un'epoca.

Allora, mi sono detto, quel concerto a Prato del 18 settembre 2001 (e doveva tenersi una settimana prima!) è stata veramente la mia "ultima volta".  Francesco, capisco l'età, capisco che il fisico e la voce non siano più quelli di un tempo... ma un ultimo concerto per chiudere in bellezza? Eppure il tuo quasi coetaneo Mick Jagger era a Londra qualche tempo fa a saltare come un dannato per celebrare i cinquant'anni degli Stones. Francesco, altro che erba che cresce tutt'attorno, passa alle droghe pesanti e questo concerto d'addio faccelo... anche da seduto...

Ma forse hai ragione. A questo punto meglio fermarsi. Però credo che qualche riga su quest'ultimo disco la devo proprio scrivere, dato che secondo me è il migliore dai tempi di "D'amore, di morte e di altre sciocchezze" che risale al lontano 1996.

Canzone di notte n.4
Sarebbe una delle migliori ma ha due difetti. Il primo è di essere troppo lunga, anche per gli standard gucciniani. Al quarto minuto l'attenzione tende a calare e non si seguono più le riflessioni notturne, in bilico tra passato e presente, rimane solo quel senso di nostalgia che pervade tutto l'album.
"Una volta non passava giorno che non suonassi la chitarra, ora non so neanche se ne sono ancora capace (se mai lo sono stato)". In questa canzone si avverte bene il rimpianto per la "religione del tirare tardi e aspettare mattino".
Il secondo difetto? il siparietto all'inizio, recitato un po' male e tutto sommato evitabile...

L'ultima volta
La... prima volta che l'ho ascoltata non m'è piaciuta, mi è sembrata quasi una caricatura di una canzone di Guccini. Poi l'ho riascoltata meglio, e - nella sua semplicità - è uno dei miei brani preferiti dell'album. Certo il tema dell'ultima volta che nella vita si fa una cosa anche banale (o meno banale come assistere a un concerto di Guccini...) è tipicamente gucciniano, e il verso da aggiungere alla fine proposto da Juan Carlos Biondini "e toccarsi ben bene le palle" è quanto mai appropriato.

Su in collina
Il testo non mi convince troppo, forse nella traduzione dal bolognese all'italiano s'è persa un po' di poesia. Così sembra uno dei tanti brani dedicati alla Resistenza da vari gruppi folk/rock... e non tra i migliori. La musica non aggiunge molto, l'arrangiamento con la ghironda (che per i profani suona come una cornamusa) è invece molto bello. Ascoltate anche la bella versione dei Gang, che la trasformano in una tipica canzone dei fratelli Severini.

Quel giorno d'aprile
Bisogna riconoscere stavolta a Beppe Dati di avere composto una melodia tra le più belle dell'album. Anche il testo si distanzia finalmente da quel manierismo e da quell'ingenuità delle varie Cirano e Don Chisciotte. Non so quanto il racconto sia autobiografico e se il padre di Guccini sia stato soldato in Russia, ma sicuramente è stato prigioniero in Germania ed è tornato a casa guerra finita. L'orrore della guerra negli incubi da reduce (i "compagni coperti di neve" auto-censurati nella lettera al figlio per proteggerlo) la televisione che assopisce le coscienze ("l'anima dorme davanti a una scatola vuota") e fa dimenticare gli ideali e le speranze di un'Italia liberata ("dentro di noi troppo in fretta ci allontana quel giorno d'aprile") sono temi importanti appena accennati in versi di una rara sensibilità e bellezza.

Il testamento del pagliaccio
La canzone "politica" dell'album, dove il pagliaccio rappresenta - sembra - il cittadino italiano medio "intossicato da sogni vani di democrazia" che ricade nell'incubo dell'Italia berlusconiano-fascista ("un onesto mafioso riciclato, un duro, puro e cuore di nostalgico travestito da vero democratico...") . Il pezzo risulta gradevole e divertente (cantando in gregoriano un "marameo" è geniale) ma un po' troppo legato alla politica con la p minuscola dei politicanti italiani, e può già risultare datato. Nonostante l'andamento un po' da Don Raffaé non ha proprio niente della lezione di De André.

Notti
Molto gucciniana, anche se non l'ha scritta lui, ben cantata e ben suonata, con una coda quasi pop. Non sarà certo ricordata tra i capolavori del Guccio, ma a me è piaciuta.

Gli Artisti
Qualcuno l'ha definita il pezzo forte del disco. Sarà... a me è sembrata tra le cose più brutte cantate dal nostro (ovviamente Cristoforo Colombo è fuori concorso). Il tema dell'artista come "umìle artigiano" era già stato sviscerato (da "non queste mie di fil di ferro e spago" a "io non artista, solo piccolo baccelliere") e questi versi proprio non mi convincono. E poi, lo scandalo. Ricordo che stiamo parlando uno che aveva fatto rimare "amare" (inteso come aggettivo femminile plurale) con "Schopenauer". Ecco, ora alle prese con un penultimo verso che recita "un grappolo d'illusioni che svaniscono dalla memoria", termina con "e non restano nella...". Nella...? Certo "storia" sarebbe stato scontato, ma "memoria" è ancora peggio! Come si fa a fare rimare "memoria" con "memoria"!?! Qui, Francesco, mi hai profondamente deluso.

L'Ultima Thule
Il brano che riassume tutto il disco, lo specchio dell'animo di Guccini di oggi. Un testamento artistico coerente con quello che ha sempre cantato: "E qui da solo penso al mio passato/ vado a ritroso e frugo la mia vita" ma già mille anni prima aveva detto "Cantare il tempo andato sarà il mio tema", tanto che non stonano le autocitazioni ("se morivo più forte rinascevo" - ai tempi di Piccola Città - e gli "amici andati" di Lettera). Musicalmente "celticheggiante" e con un'ultima quartina che lascia senza parole:
L’Ultima Thule attende e dentro il fiordo
si spegnerà per sempre ogni passione,
si perderà in un’ultima canzone
di me e della mia nave anche il ricordo.

Che dire, Francesco, sono certo che ti sbagli e saremo in molti a non dimenticarti.

24 novembre 2012

Una vita in meno



Il professore universitario e storico Jean Pierre Filiu (autore fra l'altro di una recentissima Storia di Gaza e studioso della Primavera Araba) ha firmato le parole di questa bella canzone degli Zebda, un gruppo di Tolosa, che vuole rendere omaggio agli abitanti della striscia di Gaza sottoposti al blocco israeliano dal 2007.

Sono nato in un paese che non esiste
Sono nato su una terra che non è più mia,
Una terra occupata, una terra calpestata
una terra autonoma solo sulla carta,
sono nato tra gli zaghroutah e le urla di gioia
sono nato dopo molti altri in un campo troppo stretto
Il mare era la mia frontiera, il mio santuario,
per dimenticare i coloni e il blocco navale e la miseria
sono cresciuto cullato dal suono dei racconti dell'esilio,
sono cresciuto all'ombra di vite sospese a un filo,
il filo di una speranza tenace anche in un vicolo cieco,
Un giorno sì a testa alta avremo il nostro posto
avremo il nostro posto, avremo il nostro posto.

Sono cresciuto troppo, troppo in fretta tra lutto e oblio
Sono cresciuto dando del tu all'orizzonte infinito,
la sabbia calda sotto i miei passi mi portava al di là
Sarò così grande così forte, non si vedrà che me,
ho vissuto a Gaza senza mai uscirne,
Ho vissuto giorno dopo giorno senza rimorsi né sospiri,
malgrado il filo spinato il coprifuoco i blindati,
ho portato in fondo al cuore il sogno di scappare via,
il sogno di scappare via, di scappare via.

Ho vissuto le onde umane dell'intifada
ho vissuto cortei e scioperi e bandiere sventolate,
cantavamo a pieni polmoni la nostra passione
mentre sopra di noi sfrecciavano i loro aerei
Sono morto - o hanno mentito? - di una pallottola vagante
sono morto assassinato da un uomo sconosciuto
che credeva di fare il suo dovere sparando nella nebbia
a delle ombre nemiche con armi ridicole,
sono morto come mille altri, mille dopo e mille prima,
sono morto una sera d'autunno, una sera di ramadan,
Ma non volevo altro che vivere, vivere libero
non volevo che essere libero, non volevo che essere libero,
non volevo che essere libero!