28 ottobre 2007

Amoureux et amants

Mi piace pensare che questi due classici della canzone francese siano in qualche modo legati. Sono due canzoni diversissime, che riflettono il carattere dei loro autori: irriverente e ironico Brassens, melodico e struggente Brel.
Ma sarebbe bello se gli innamorati della prima canzone si ritrovassero ad essere dopo trent'anni i protagonisti della seconda. Quel benessere sicuro che sognano i giovani innamorati non è molto diverso dalla vita della famiglia borghese che si scandalizza ipocritamente quando li incrocia, ma sarebbe un peccato che finisse così, perché, come dice Brel, non c'è trappola peggiore che vivere in pace per degli amanti, amarsi con monotonia.

GLI INNAMORATI DELLE PANCHINE
(Les amoureux des bancs publics)
Georges Brassens 1954
Georges Brassens
La gente che vede di traverso
pensa che le panchine verdi
che si vedono sui marciapiedi
siano fatte per gli invalidi o per gli obesi
Ma questa è un'assurdità
ché in verità
son là, com'è ben noto
per accogliere qualche volta gli amori debuttanti

Gli innamorati che si sbaciucchiano sulle panchine
fregandosene degli sguardi obliqui
dei passanti onesti
Gli innamorati che si sbaciucchiano sulle panchine
dicendosi dei "Ti amo" patetici
hanno dei visini così simpatici
Les Amoureux des bancs publics
Si tengono per la mano
parlano del domani
della carta da parati azzurra
che rivestirà i muri della loro camera da letto
Si vedono già dolcemente
Lei a cucire, lui a fumare
In un benessere sicuro
e a scegliere il nome del loro primo bambino

Quando la sacra famiglia Tal dei Tali
incrocia sul suo cammino
due di questi screanzati
li squadra severamente con propositi velenosi
Ciò non impedisce che tutta la famiglia
Il padre, la madre, la figlia,
il figlio, lo spirito santo
vorrebbe qualche volta potersi comportare come loro

Quando i mesi saranno passati,
quando saranno appassiti
i loro bei sogni fiammanti
quando il loro cielo si coprirà di grandi nuvole pesanti
S'accorgeranno emozionati
che è al rischio delle strade
su una di quelle famose panchine
che han vissuto il miglior momento del loro amore

LA CANZONE DEI VECCHI AMANTI
(La chanson des vieux amants)
Jacques Brel 1967
Jacques Brel
Sicuro ci furono dei temporali
Vent'anni d'amore, è l'amore folle
Mille volte hai preso le valigie
Mille volte ho preso il volo
Ed ogni mobile si ricorda
In questa stanza senza culla
le schegge delle vecchie tempeste
Più nulla assomigliava a nulla
Avevi perduto il gusto dell'acqua
Ed io quello della conquista

Ma mio amore
Mio dolce mio tenero, meraviglioso amore
Dall'alba chiara fino alla fine del giorno
Ti amo ancora sai ti amo

Io so tutti i tuoi sortilegi
Tu sai tutti i mei incantesimi
Mi hai tenuto di tranello in tranello
Ti ho perduto di quando in quando
Certo, hai preso qualche amante
bisognava pur passare il tempo
bisogna pure che il corpo esulti
Ma alla fine, alla fine
ce n'è voluto di talento
per invecchiare senza essere adulti

Mio amore
Mio dolce mio tenero, meraviglioso amore
Dall'alba chiara fino alla fine del giorno
Ti amo ancora sai ti amo

E più che il tempo ci fa seguito
E più il tempo ci dà tormento
Ma non c'è trappola peggiore
Che vivere in pace per degli amanti
Certo tu piangi un po' meno presto
io mi dispero un po' più tardi
proteggiamo meno i nostri misteri
si lascia meno fare al caso
ci fidiamo meno della corrente
ma è sempre la stessa dolce guerra

Mio amore
Mio dolce mio tenero, meraviglioso amore
Dall'alba chiara fino alla fine del giorno
Ti amo ancora sai ti amo

21 ottobre 2007

Balkan "express"

Il diario di viaggio è venuto molto lungo. Se proprio non ce la fate, leggetelo a puntate (una città al giorno, dai)

Belgrado

"È difficile dire dove e da che parte sia Belgrado, afferrare l'identità proteiforme e la straordinaria vitalità di questa incredibile città che è stata tante volte distrutta e che tante volte è risorta, cancellando le tracce del suo passato."
(Claudio Magris, Danubio)

Belgrado sorge alla confluenza di due fiumi, nel punto dove la Sava si getta nel Danubio. Guardando il panorama dalla fortezza di Kalemegdan, tuttavia, non è immediato distinguere un fiume dall'altro, e solo con una cartina alla mano si capisce infine che il vero fiume di Belgrado, quello dove sorgono i ponti principali, è la Sava, più che il Danubio. Lo stesso fiume che passa da Zagabria!

Quattro secoli di storia serba sono segnati dalla lotta contro i turchi, eppure il principale monumento di Belgrado, alla cui pulizia lavorano più spazzini che nel resto della Serbia, è una fortezza militare turca, e anche nel resto della città molti elementi dell'architettura ricordano la dominazione ottomana. Solo a pochi chilometri, sull'altra sponda del Danubio, stretto tra orribili palazzoni in stile socialismo reale, sorge il paesino di Zemun con le sue casette in stile austriaco. Il Danubio ha infatti segnato a lungo il confine tra i due grandi imperi, quello austro-ungarico a nord e quello ottomano a sud.

Fortezza di Kalemegdan

Oltre a Danubio di Magris, un compagno imprescindibile per chi viaggia nelle terre bagnate da questo grande fiume, ci guidano nella capitale serba ben due guide turistiche: la "Lonely planet" chiamata "Balcani occidentali" (una definizione ardita coniata per designare i paesi dell'ex Jugoslavia più l'Albania) e "Serbia a portata di mano". Le due guide sono spesso in aperto contrasto, soprattutto per quanto riguarda l'introduzione storica: la Lonely Planet sembra scritta da Massimo D'Alema, l'altra da Peter Handke... per esempio nel presentare la questione kosovara, una scrive

Nel marzo del 1999 i colloqui di pace a Parigi fallirono, quando la Serbia rifiutò di appoggiare un piano patrocinato dagli USA. In risposta alla resistenza in Kossovo, le truppe serbe procedettero alla 'pulizia etnica' del paese ai danni della popolazione albanese.

e l'altra...

La meridionale provincia autonoma serba è amministrata dall'ONU dal 1999, a seguito della guerra in cui la NATO appoggiò i terroristi albanesi-kosovari contro i serbi. Da allora oltre 250 mila non albanesi hanno lasciato la provincia ed i pochi serbi rimasti sono abbandonati nella paura della loro esistenza quotidiana, ridotti in enclave assediate e ghetti cittadini.

La Lonely Planet è però più utile per trovare un posto dove mangiare, è così che ci troviamo al "?", un locale che si sarebbe dovuto chiamare "Caffé della cattedrale" ma i prelati della vicina cattedrale ortodossa si opposero in ogni maniera costringendo il proprietario ad adottare questo nome particolare per protesta. Particolare è anche la scena da film di Kusturica a cui assistiamo: quando inizia a piovere, i camerieri trasportano prontamente un intero tavolo, con tutte le pietanze, dal cortile all'interno del ristorante. Rimane una ragazza con un piatto in mano e senza tavolo, ed una zucca per terra.
Diciamo subito che la vita di un vegetariano serbo dev'essere molto difficile. Il piatto nazionale, la punjena bela vešalica, consiste in carne di maiale ripiena di pancetta e prosciutto cotto, ricoperta di formaggio fuso. Per colazione, il piatto balcanico per eccellenza è il Burek. Si tratta del cibo più unto che mente umana possa concepire, una sfoglia con dentro carne o formaggio da accompagnare con lo yogurt. Dopo qualche giorno di questa dieta uno stomaco italiano richiederà con insistenza una pasta con il pomodorino fresco. Senza soffritto di cipolla, semmai uno spicchio d'aglio.

Per le strade di Belgrado sono numerosissimi i venditori degli oggetti più disparati, a volte però i banchini con gli articoli sono sprovvisti di venditore, come nel caso di una rivendita di LP usati, tra i quali troviamo, a soli 50 dinari (60 centesimi) l'uno, anche quelli del famoso cantautore serbo Ɖorđe Balašević (il "De André serbo"). Aspettiamo per un po', poi, visto che non c'è l'ombra del proprietario del banchino, decidiamo di prendere i dischi ("self service balcanico") lasciando i soldi accompagnati da un bigliettino di spiegazioni.

Nel nostro viaggio abbiamo un indubbio vantaggio rispetto ad altri turisti: conoscere la lingua. Cioè, non so perché sto usando il plurale, dato che chi parla serbo-croato (ops... l'ho scritto) è solo la Monia, anche se il Maso durante il viaggio si stupirà più volte di capire molto più di quello che avrebbe mai creduto. Già dal primo contatto con la gente del luogo, il tassista che ci porta dall'aeroporto all'albergo, appare evidente che a tutti fa un piacere immenso trovare una straniera che parla la loro lingua. Iniziano così lunghe chiacchierate, l'unica accortezza è cambiare il nome della lingua ("ho studiato serbo / croato / bosniaco") con risultati anche comici ("Dove hai studiato serbo?" "Ehmmm... a Zagabria...") e stare attenta alle poche parole che cambiano (che, sfortunatamente, sono anche quelle più comuni). I serbi sembrano comunque molto più tolleranti in materia linguistica e sono disposti tranquillamente a parlare ancora di lingua serbo-croata. Il tassista, comunque, era bosniaco e ci informa gentilmente che a Belgrado non c'è niente da vedere e che ai serbi piace soltanto cantare, bere e divertirsi e non sono grandi lavoratori come i bosniaci. Spiega anche la profonda differenza tra la lingua serba e quella bosniaca: la lunghezza delle vocali. "Loro dicono pivo, noi bosniaci diciamo piiivo!". Proprio le birre sono uno specchio delle dispute linguistiche: Jelen pivo, Ožujsko pivo, Sarajevsko pivo, nomi diversi ma tutte lo stesso sapore.

Da Belgrado a Sarajevo

Autobus balcanicoPaolo Rumiz scrive che nei Balcani il tempo si dilata, che è un modo poetico per dire che le velocità diminuiscono. Il tragitto Belgrado-Sarajevo, infatti, è servito da un pullman che impiega 7 ore a percorrere 320 km. La velocità dipende certo dallo stato delle strade (che secondo la guida della Serbia oscilla "tra l'accettabile e il trasandato") ma anche dalle frequenti fermate (infatti chiunque può chiedere al conducente di fermarsi anche in aperta campagna per lasciarlo vicino a casa) e dalla presenza sulla carreggiata di carri trainati dai cavalli o di mucche.

Impariamo che spesso sugli autobus balcanici compaiono due figure professionali ben distinte: l'autista, esperto conoscitore delle stradine di campagna che percorre a tutta velocità al ritmo di turbofolk serbo, ed il bigliettaio, il cui compito consiste nel conversare con il conducente, controllare i biglietti ai passeggeri, annunciare a voce alta il nome di ogni fermata, dove a volte deve anche scendere a timbrare un foglio. Sull'autobus per Sarajevo compare però anche un terzo personaggio, probabilmente un amico del bigliettaio, che lo aiuta nel difficile lavoro.
Il sedile accanto all'autista, occupato di solito dal bigliettaio, è ribaltabile e deve essere spostato ogni volta che qualcuno deve salire o scendere. Sulle linee dove la figura professionale del bigliettaio non è presente, questo posto è occupato da un altro passeggero, a cui tocca anche il compito di lavare il vetro. "Lavare il vetro" significa spruzzarlo con il vetril ed aspettare che il sapone scenda liberamente.

Come recita la Lonely Planet, Sarajevo "vanta ben due stazioni degli autobus". Non si sa cosa ci sia da vantarsi, dato che le due stazioni riflettono la divisione della città dopo la guerra: una serve solo le destinazioni nella Repubblica Serba di Bosnia ed in Serbia, mentre l'altra serve la Federazione croato-musulmana ed il resto d'Europa. Noi arriviamo quindi alla stazione est, dopo una sosta nella cittadina di Pale, quella che nessun giornalista occidentale nominava senza farla precedere dall'epiteto "famigerata" o "roccaforte dei serbo-bosniaci".

Serbo-bosniaco è anche il signore che viaggia con noi per tornare a casa, e che immancabilmente comincia a raccontare alla Monia la sua storia. Quando è scoppiata la guerra, sua moglie era incinta del secondo figlio, mentre la prima aveva tre anni. Dopo quattro anni nella Sarajevo assediata, tra granate e impossibilità di prendere un caffé dai parenti al di là della linea del fronte, ha vissuto sette anni a Bratunac, un paesino sperduto vicino a Srebrenica. "Ognuno racconta la sua versione della guerra", dice, "tutti pensano di aver ragione, ma hanno tutti torto. Con Tito, comunque, questo non sarebbe successo, non avrebbe lasciato le basi militari agli americani. Prima della guerra potevo viaggiare liberamente in Jugoslavia e all'estero" (grazie al famoso passaporto rosso che apriva tutte le porte) "ora ci sono tutte queste frontiere. La guerra mi ha portato via dieci anni di vita". Lui è serbo, ma "i serbi che assediavano la città erano dei primitivi". La divisione tra serbi, musulmani e croati appare quasi comica, quando si pensa che hanno tutti lo stesso cognome, nella stessa famiglia troviamo infatti Boris Dilić, Mustafah Dilić e Tomislav Dilić.

Sarajevo

In guerra, la vera immagine di Sarajevo era la vita. [...] Nella moviola della mia mente, Sarajevo è un signore in giacca e cravatta che esce perfettamente sbarbato da un rudere che è casa sua, è il vecchio Mujo Kulenović che aggiusta il tetto della bottega, è un musulmano che in centro quasi si inchina davanti a un parroco cattolico. Sarajevo è una pentola che non ha mai toccato carne di maiale e che nelle case ortodosse e cattoliche è sempre pronta per gli ospiti di religione islamica; è Kanita Fočaka che a trecento metri dalle linee serbe apre una scuola di buone maniere; è una fila di bambini disciplinati che vanno, in mezzo alla guerra, a imparare il bon ton.
(Paolo Rumiz, "Maschere per un massacro")

Arriviamo a Sarajevo lunedì sera e dall'alto delle colline il panorama della città illuminata è mozzafiato. Il tassista ci dice che dopo la guerra Sarajevo è diventata una città musulmana e quella sera gli islamici festeggiano una ricorrenza negli ultimi giorni del Ramadan. Quando scendiamo nella Baščaršija, l'antico bazar turco, le strade, addobbate di luci come per Natale, sono piene di gente. Tutti si riuniscono nei cortili delle moschee, stendono i tappeti e si preparano alla preghiera della sera. Le donne musulmane, truccatissime e profumatissime, si coprono al volo con il velo prima di entrare nella moschea e prendono posto tutte da un lato. La citta risuona dei canti dei muezzin e l'atmosfera è suggestiva.

Moschea di Sarajevo

Il giorno successivo, dopo una passeggiata per le vie del centro, decidiamo di visitare il "museo del tunnel". Il tunnel di Sarajevo, alla periferia della città, era stato costruito sotto l'aeroporto controllato dalle Nazioni Unite, per raggiungere il territorio bosniaco controllato dall'esercito musulmano. Da qui donne e bambini si incamminavano a piedi sul monte Igman, scortati dai militari bosniaci. Succedeva spesso però che chi riusciva a lasciare Sarajevo, dopo cinque o sei mesi volesse ritornare nella città assediata, per un sentimento di attaccamento alla propria città.
Al museo del tunnel incontriamo Amela, una bosniaca che parla benissimo spagnolo. Nel 1992 era andata un fine settimana in Macedonia a trovare il padre, e non erano potuti rientrare. Il loro volo charter per la Spagna fu uno dei primi voli umanitari. Da quando aveva dieci anni ha vissuto a Madrid. Ora è tornata e fa la guida turistica e ci racconta in spagnolo dei monumenti e della storia della sua città.

Quando è cominciata la guerra, la gente di Sarajevo non ci credeva: vedeva i carri armati che si appostavano sulle colline, ma gli dicevano che era un'esercitazione dell'esercito e di non preoccuparsi. Resosi conto del pericolo, pensarono di poter fermare la guerra con una manifestazione e qui ci fu la prima vittima, una studentessa di medicina che era venuta a studiare da Dubrovnik. La volontà di continuare a vivere è testimoniata dai tanti cinema, teatri e discoteche che rimasero aperte o aprirono durante l'assedio. L'ottimo ristorante To be or not to be cambiò il nome in To be or to be, perché il dubbio amletico doveva risolversi in quel contesto con una scelta di vita.

Biblioteca di SarajevoLa famosa biblioteca di Sarajevo, quella che bruciò in una notte di cupe vampe nella primavera del 1992, mentre la gente cercava di salvare i libri dalle fiamme, è stata costruita sotto gli austriaci ma in stile pseudomoresco. L'architetto che la progettò aveva viaggiato in Spagna ed era rimasto affascinato dall'Alhambra, ma adottando questo stile l'impero voleva anche dimostrare la sua tolleranza verso l'Islam in una città dove gran parte della popolazione era musulmana. Di fronte alla biblioteca, sull'altra riva del fiume, c'è la Inat Kuća, la casa del capriccio, che oggi ospita un ristorante. Si chiama così perché dove ora sorge la biblioteca si trovava prima la casa di un mercante turco. Quando gli chiesero di vendere il terreno per costruire la biblioteca, si rifiutò, anche se gli avevano offerto una borsa d'oro. Alla fine pose come condizione che gli costruissero una casa identica sull'altra riva.

Sarajevo è una città in cui la Storia è passata prepotentemente; sul Ponte Latino il 28 giugno 1914 il serbo bosniaco Gavrilo Princip esplose i due colpi di pistola che uccisero l'arciduca Francesco Ferdinando e la contessa Sophie dando il pretesto per lo scoppio della prima guerra mondiale. Certo, l'amico Franz Ferdinand poteva anche pensarci due volte prima di andare a Sarajevo proprio quel giorno: quella data è infatti ricorrente nella storia serba, a partire dal 1389, anno in cui l'esercito serbo combatté contro i turchi nella Piana dei Merli (Kosovo Polje). Il risultato fu catastrofico per la Serbia, che fu da allora soggiogata per secoli dall'impero ottomano, ma tuttora i serbi sostengono di avere vinto, o almeno pareggiato, e il sentimento nazionale serbo è costruito in gran parte attorno a questo evento. I muri di Belgrado sono pieni di manifesti che proclamano Kosovo je Srbija (Il Kosovo è Serbia) e publicizzano il sito nazionalista www.1389.org.yu.
In Jugoslavia Princip era considerato un eroe nazionale, e le sue impronte erano segnate sul ponte che allora portava il suo nome. Dopo la guerra, Princip venne dichiarato un terrorista e il ponte riprese il suo antico nome. Eroi nazionali e terroristi sono più o meno la stessa cosa vista da prospettive diverse. Heroj a ne zločinac ("Eroe, non criminale"), come c'è scritto sui muri in Croazia a proposito di Gotovina.

Mostar

"Era il simbolo, e non il manufatto che si voleva colpire. La pietra non interessava ai generali croati. Il ponte, difatti, non aveva alcun valore strategico. Non serviva a portare uomini e armi in prima linea.
Esisteva, semplicemente. Era il luogo della nostalgia, il segno dell'appartenenza e dell'alleanza tra due mondi che si volevano a tutti costi separare."
(Paolo Rumiz)

ponte di MostarA Mostar ci si sente già un po' in Croazia. E non nel senso buono del termine. A Belgrado in ottobre i turisti sono una rarità, a Mostar sono i bosniaci ad essere un'eccezione. Tedeschi e giapponesi invadono il famoso ponte ricostruito, forse senza sapere chi durante la guerra l'ha distrutto. A Sarajevo una targa ricorda che la biblioteca fu incendiata da "criminali serbi", a Mostar non c'è scritto che dei criminali croati hanno distrutto il ponte, solo una targa proclama "don't forget Mostar 1993", ma sembra che le responsabilità siano dimenticate. Ci sembra quasi che Mostar sia stata ricostruita per i turisti tedeschi, a cui offrire un piccolo ponte di Rialto a due passi dalle spiagge croate, per questo un po' ci delude e continuiamo il viaggio verso la vera Croazia.

Dubrovnik

Dal punto di vista artistico e architettonico la "perla dell'Adriatico" batte sicuramente tutte le altre città viste in questo viaggio. I palazzi in stile veneziano, che si riflettono sulle strade lastricate, sono sicuramente bellissimi. Ma, arrivando da lidi poco battuti dal turismo di massa, ritrovandosi a camminare in mezzo a centinaia turisti americani, s'insinua la nostalgia delle strade di Belgrado dove si sentiva parlare solo serbo.

Dubrovnik

La Croazia ci accoglie con strade dedicate al cardinale Stepinac e ponti dedicati al dott. Franjo Tudjman (ma dottore de che?) mentre in Serbia non si trovano per fortuna strade dedicate a Milošević, e se vedete una strada intitolata a Karadžić potete stare sicuri che si tratta dell'innocuo linguista Vuk e non del criminale di guerra Radovan. L'attacco dell'esercito serbo-montenegrino è documentato nei particolari in un museo dove non si manca di presentare tutte le foto dei caduti durante la guerra e trofei patriottici come la bandiera croata che sventolava sulla torre al momento del bombardamento. I serbi sono demonizzati, e i croati che hanno combattuto nella "guerra patriottica" sono celebrati come eroi, anche nel caso di criminali come Gotovina. Si avverte insomma un nazionalismo esasperato, totalmente assente in Bosnia (per esempio il museo del tunnel di Sarajevo non è assolutamente retorico o nazionalista), dove la guerra è stata sicuramente più lunga ed efferata. Come sempre sono le persone comuni, come i signori che ci affittano la camera, a farci ritrovare quell'ospitalità e cordialità che, a dispetto di ogni confine, è ancora una delle peculiarità balcaniche.

Mentre in Serbia e Bosnia si percepisce ancora nostalgia per la Jugoslavia, in Croazia questa parte di storia sembra completamente cancellata. La ragione va cercata in quello che è venuto dopo. Bosniaci e serbi stanno sicuramente peggio, dopo guerre, embargo, bombardamenti della NATO, profughi, nuove frontiere. La Croazia invece, grazie al boom turistico, è diventata molto più ricca e non ha nessuna ragione di rimpiangere i vecchi tempi.

Novi Sad

Ritornando sui nostri passi, decidiamo di ripartire da Sarajevo per tornare in Serbia. Dopo un viaggio lunghissimo, giungiamo a Novi Sad. Il paesaggio montagnoso della Bosnia fa spazio alla pianura della Vojvodina. Arriviamo tardi senza avere prenotato (chi dovrebbe mai venire a Novi Sad in ottobre?) e troviamo per fortuna due ragazze (Marina e Maja) che, quando chiediamo una semplice informazione su un autobus, girano la città insieme a noi aiutandoci a trovare un posto dove passare la notte. Quando le chiediamo perché fanno questo, sprecando la loro serata per noi, Marina ci risponde: "Perché se fossi in Italia nella vostra situazione, mi piacerebbe che qualcuno mi aiutasse a trovare dove dormire.".

Anche a Novi Sad sono evidenti le tracce della dominazione austrungarica. Sembra di essere in una piccola Vienna, ma ricca di culture diverse. La cattedrale cattolica in stile gotico è a due passi da quella ortodossa, raccolta e ricca di icone. La fortezza di Petrovaradin, sull'altra sponda del Danubio, era una fortezza austriaca. Ma a costruire le fortezze i turchi erano molto più bravi.

Novi Sad

Parco nazionale di Đerdap

La geografia, per un occidentale sprovveduto, si fa sempre più vaga. Felix Hartlaub [...] osservava - quando era stato mandato in quella "giungla sudorientale" - che dopo Belgrado incominciava, nella sua mente, una nebbia confusa che gli rendeva vaghe e imprecise quelle terre balcaniche in cui si trovava, e si chiedeva dov'era. E anch'io, aspettando l'autobus a Kladovo, mi domando dove sono.
(Claudio Magris, Danubio)

Non siamo riusciti ad arrivare a Kladovo, dove il Danubio si restringe in una gola strettissima, al limite orientale del parco nazionale delle Porte di Ferro. Le cinque ore di autobus da Belgrado a Kladovo, dopo altre due ore da Novi Sad a Belgrado, ci hanno spaventato, e abbiamo deciso di fermarci a Golubac, all'inizio dei cento chilometri di parco nazionale. Così, invece che nel punto più stretto, ci ritroviamo dove il fiume raggiunge la massima ampiezza. Ma anche noi, come Claudio Magris, ci domandiamo spesso dove siamo e impieghiamo due giorni a capire che l'altra sponda del fiume è già Romania.

A Golubac non c'è l'imbarazzo della scelta per quanto riguarda l'alloggio. C'è un solo albergo, in riva al Danubio che in quel punto sembra quasi un lago. Questo a causa alla diga costruita tra gli anni '60 e '70 e che ha modificato il paesaggio sommergendo interi paesi che sono stati spostati più in alto. Il giorno dopo visitiamo il paesino successivo, Donji Milanovac, dove facciamo una bella passeggiata tra la campagna serba con un bellissimo panorama sulle gole del Danubio. Noi, gli unici due turisti in una domenica d'ottobre, siamo guardati quasi con sospetto ma basta presentarsi con un Dobar dan che la gente diventa gentile e cordiale, abbozzando sorrisi e mostrando voglia di parlare.

rocca di Golubac

La rocca romano-turca di Golubac è sicuramente in una posizione suggestiva, ma questi siti archeologici hanno in Serbia la stessa importanza dei numerosi cani randagi, lasciati lì senza cura, senza neanche pensare che un giorno potrebbe arrivare un turista. E questo nonostante gli sforzi di Tatjana. Chi è Tatjana? È la gentilissima impiegata tuttofare dell'agenzia turistica di Golubac. Il suo ufficio non è facilmente raggiungibile con le indicazioni della guida, però basta chiedere alla prima signora che passa e una staffetta di intermediari ci porta a destinazione. La gentilissima signora ci accompagna in comune dove alle dieci del mattino la preoccupazione principale è dispensare la colazione a tutti gli impiegati. Siamo lasciati in compagnia di un altro simpatico signore, che ci elenca per nome la lunga serie di amici italiani che ha conosciuto in vita sua: Gianni, Bruno, Andrea... poi finalmente arriva Tatjana. Capelli biondi lunghi al vento, con colpi di sole viola, ci porta immediatamente nel suo piccolo ufficio dove accende il computer e fa partire (per farci piacere) della musica italiana. Con orrore scopriamo che si tratta dell'ultimo album di Eros Ramazzotti. Poi, per farci vedere tutti gli angoli del parco naturale, ci mostra le foto che lei stessa ha scattato al marito e ai figli in ogni paesino da Golubac a Kladovo. Ci lascia andare carichi di cartoline, poster, depliant e con una gran voglia di ascoltare un po' di folk serbo.

In partenza

Siamo arrivati al penultimo giorno di vacanza e ci prepariamo a ritornare a Belgrado, da dove un aereo ci riporterà a Ginevra. Manca solo l'ultimo tragitto in pullman, ma non è particolarmente lungo e sarà sicuramente rilassante. O almeno così parrebbe, se non che anche questo autista scopre che siamo italiani e ci vuole fare un regalo. Ed ecco così, per la seconda volta nello stesso giorno, risuonare le note della nuova canzone di Eros. Il Maso inizia a scalpitare e la Monia a ridere senza pietà. Alla fine della canzone... orrore... ne comincia un'altra! E un'altra ancora, si tratta dell'intero cd di Eros Ramazzotti! Con le parole "Datemi la Pausini!", segno evidente di una mente sull'orlo del delirio, arriviamo finalmente a Belgrado, liberi dalle rime costruite con i verbi al futuro.

A Belgrado cerchiamo di tirare le fila del viaggio... impressioni? ricordi? emozioni? Per ora a malapena si distinguono volti, storie, colori e forme... la valle della Vojvodina e i colori autunnali della montagnosa Bosnia, le gole della Drina e della Neretva e le isole dalmate, la Serbia rurale lungo il Danubio... I sorrisi dei contadini serbi, la cordialità degli albergatori croati, l'atmosfera mozziafiato che si respira a Sarajevo.

Il diario è frutto di una collaborazione Monia-Maso. Se volete, qui trovate una galleria con le foto della vacanza.