07 novembre 2009

Et dona ferentes

Google + Linux

Mi scuso per questo articolo vagamente tecnico, ma credo che possa contribuire a un dibattito interessante. Neanch'io ho un'opinione netta in proposito, e cercherò di presentare più punti di vista.

La discussione è scaturita durante i preparativi per il Linux Day pratese. Per pubblicizzare l'evento e farne la cronaca in diretta i linuxari pratesi si sono affidati a due servizi diventati ormai di uso quotidiano: Twitter, il servizio di microblogging che permette di “cinguettare” al mondo i propri pensieri, e Facebook, la soluzione vincente che è riuscita a trasformare internet in quello a cui da sempre era destinato: il regno del cazzeggio. La pura perdita di tempo e il farsi gli affari altrui infine vittoriosa su ogni altro utilizzo della rete sbandierato nel tempo (la ricerca scientifica, l'informazione, la discussione e finanche lo shopping)

Nessuna preclusione o senso di superiorità, verso questi strumenti, che comunque anch'io utilizzo (twitter no, o non ancora...) a volte anche con soddisfazione. Mi domandavo soltanto quanto fosse opportuno che un'associazione che per statuto promuove l'utilizzo del software libero si affidasse a dei servizi che liberi e aperti non sono per nulla. Non lo dico per un estremismo “freesoftwarista” inutile se non dannoso, che oltretutto non avrei nessun diritto di propugnare, dato che sul lavoro sono costretto ad utilizzare il malvagio Windows mentre sul mio portatile gira un proprietarissimo per quanto efficientissimo Mac OS X. Volevo invece partire da questa provocazione, per stimolare una riflessione sull'opportunità e forse la necessità di ripensare la concezione di software libero.

La definizione di software libero che il fondatore del movimento Richard Stallman ripeterà fino alla morte (che probabilmente lo coglierà mentre per la 2^18 volta ripete la sceneggiata di St IGNUcius con l'aureola in testa) richiede di soddisfare quattro libertà fondamentali:

  • Libertà di eseguire il programma per qualsiasi scopo (chiamata "libertà 0")
  • Libertà di studiare il programma e modificarlo ("libertà 1")
  • Libertà di copiare il programma in modo da aiutare il prossimo ("libertà 2")
  • Libertà di migliorare il programma e di distribuirne pubblicamente i miglioramenti, in modo tale che tutta la comunità ne tragga beneficio ("libertà 3")

Quando queste libertà sono state formulate, non c'era dubbio che il software a cui ci si riferiva fosse quello che viene eseguito in locale sul nostro computer. Anche con l'avvento del Web non ci si preoccupò dei servizi forniti dai vari siti, motori di ricerca, server mail, eccetera. Non ci si pose nemmeno il problema di determinare se questi servizi fossero aperti, fu già una grande vittoria che il World Wide Web fosse nato utilizzando protocolli aperti e liberamente implementabili (in realtà proprio questa fu la ragione del successo del Web) .

A prima vista il discorso non fa una piega. Anche il più estremista partigiano del software libero non si rifiuta di utilizzare Google per principio, anche se il codice dell'algoritmo utilizzato da Google per effettuare le ricerche o per determinare il ranking (posizionamento nella lista dei risultati) di una pagina è tutt'altro che aperto ed anzi è gelosamente custodito e protetto dal più stretto segreto industriale.
Non lo consideriamo un problema, finché possiamo accedere a Google utilizzando un client (browser) libero, come ad esempio Firefox, che comunica attraverso un protocollo aperto quale http.

Ma qual è il futuro della nostra interazione con gli strumenti informatici? La tendenza, a detta di tutti, e per quanto possa fare Microsoft per cercare di impedirlo, è quella del Software As Service. Sempre di più l'esecuzione delle applicazioni che utilizziamo ogni giorno si sposterà dal sistema operativo al web. Naturalmente Google è il leader di questa tendenza, con applicazioni sofisticate come Gmail o Google Docs. Per permettere l'esecuzione di applicazioni nel browser web, originariamente pensato per visualizzare pagine statiche scaricate in una sola sessione da un server remoto, Google ha puntato sul potenziamento del linguaggio Javascript, pensato per introdurre piccoli elementi interattivi nelle pagine ma che ha ormai raggiunto a una tale velocità di esecuzione da poter competere con il codice compilato.

Per “migliorare l'esperienza web degli utenti” come amano dire a Google, BigG ha progettato e realizzato un nuovo browser web, Chrome, che sfrutta al massimo la tecnologia Javascript e che tende a ridurre l'interfaccia intorno alla pagina all'essenziale, secondo il design minimalista di Google. Il fine ultimo è di rendere il browser lo strumento base di interazione con il computer, che sostituisca la funzione che ormai in tutti i sistemi operativi moderni (compreso Linux) è svolta dalla metafora del desktop. Il punto interessante è che Chrome utilizza componenti provenienti dal software libero, tra cui lo stesso Firefox e il motore di rendering libero WebKit, che è alla base di Safari, il browser della Apple.

Chrome è stato rilasciato come software libero e la comunità open source è stata coinvolta nello sviluppo e nel miglioramento del prodotto. Tutto meraviglioso allora? Il movimento del free software deve essere grato a Google per questo e deve schierarsi con Mountain View nella guerra contro la perfida azienda di Redmond? Fermiamoci un attimo a ragionare e ricordiamoci i versi di Virgilio: Timeo Googles et dona ferentes, cioè “temo quelli di Google anche quando portano doni”.

Il prossimo passo di BigG è già stato dichiarato: il sistema operativo Chrome OS. Basato su Linux e quindi software libero, pensato originariamente per i piccoli netbook ma in prospettiva adatto a qualunque computer desktop o laptop, sarà un sistema operativo con una missione semplice: portare l'utente nel minor tempo possibile (pochi secondi) sul web.

Quindi kernel linux minimale, accordi con le maggiori case produttrici di hardware per fornire dei driver efficienti che permettano all'utente medio di interagire con stampanti, scanner, telefonini, iPod, iPhone e tutte le diavolerie che ci aspettano nei prossimi anni con il minor sforzo possibile. E soprattutto un sistema che permetta di lanciare immediatamente il browser (evidentemente Chrome) che ci proietterà sul web a velocità supersoniche permettendoci di accedere a Google, a tutti gli altri siti e a...

Sì certo, ma poi con questo computer cosa ci faccio, oltre a leggere il sito di Repubblica per sapere chi si è spogliato oggi, e per quale motivo, nobile o meno nobile? Come faccio a controllare la mia mail, a scrivere il documento di programmazione aziendale che il capo aspetta per domani, la ricetta della torta di mele o il mio prossimo romanzo? Come faccio a disegnare il grafico dell'andamento dell'occupazione per scoprire se mi manderanno in cassa integrazione questo mese o il prossimo? Con cosa la faccio la presentazione per illustrare la strategia innovativa per esportare il buisness della piadina romagnola in Cina? Dove salvo le foto delle vacanze a Sharm El Sheik e del viaggio di nozze alle Maldive?

La risposta è semplice: per guardare la posta utilizzerò Gmail, Google Docs fornisce un ottimo programma di videoscrittura, un foglio di calcolo tipo Excel, un gestore di presentazioni tipo Power Point. Per le foto c'è Picasa. I miei documenti staranno tutti sul web, accessibilissimi da qualunque postazione al mondo e protetti dalla sicurissima password con il nome della fidanzata, del cane o del canarino. Tutti questi programmi sono gratuiti, semplici da utilizzare, innovativi, affidabili.

Meraviglioso no? Comodo? Senz'altro. Migliore di Microsoft? Senza dubbio. Libero? Ehmmm...

Dipende.

Secondo la concezione classica sì. Utilizzeremo un sistema operativo libero (Chrome OS), un browser libero (Chrome). Quello che non è libero, è semplicemente un servizio. Come Google, come Yahoo, come repubblica.it, cnn.com, facebook, twitter o blogspot.

Ma dov'è il codice sorgente delle applicazioni che utilizzeremo? Dove sta la nostra libertà di utilizzarle per qualunque scopo, di modificarle, di ridistribuirle? Chi garantisce la privacy dei nostri documenti, tutti custoditi su grandi server da qualche parte in California o Google solo sa dove? Dove la nostra libertà di non essere sommersi da “intelligenti e poco invasive” pubblicità che scandagliano scientificamente le nostre abitudini, i nostri gusti, le nostre opinioni, inclinazioni e passioni con lo scopo di farci comprare quello che, secondo un sofisticato algoritmo, necessariamente desideriamo?

02 novembre 2009

Ancora cantiamo

alessandro santoro


Ieri don Alessandro Santoro, prete delle Piagge, sollevato dal vescovo per aver unito in matrimonio Sandra e Fortunato ha celebrato la sua ultima messa al centro sociale di via Lombardia.






Cita più volte questa canzone, don Alessandro Santoro. Ancora cantiamo, ancora sogniamo, ancora resistiamo, ancora andiamo avanti. Il peccato peggiore, dice, è quello di aggettivare le persone, di etichettarle. Quello è omosessuale, quello è transessuale, povero, quello è rom, straniero, immigrato, musulmano, diverso. Mentre nella sua esperienza, da quando quindici anni fa esatti arrivò in punta di piedi alla comunità delle Piagge, Alessandro ha incontrato molte persone, ognuna con una sua storia, un suo percorso, le sue battute d'arresto e la sua capacità di rialzarsi. Quelle persone che il vescovo Betori si è rifiutato di incontrare, sia prima che dopo questa decisione così platealmente ingiusta, presa dalle stanze dorate di un bel palazzo fiorentino. E quelle parole del Vangelo, lette ogni domenica in cattedrali, chiese e chiesette, suonavano infinitamente più vere in quel prato davanti ad una"baracca", interrotte dal frastuono degli aerei che atterrano, ascoltate da tantissime persone vere, variopinte e commosse.