02 novembre 2011

Il Discorso di Stanford è una cagata pazzesca


La morte, si sa, santifica chiunque. Cossiga, quello che mandava i blindati contro gli studenti, è stato unanimemente salutato alla morte come un grande statista. Quando il diavolo si porterà all'inferno quel mafioso di Andreotti dovremmo probabilmente assistere a un commosso discorso di Napolitano che elogia il padre della Patria. Così va la vita.

Per questo non mi sono certo stupito della beatificazione del “genio dell'informatica” Steve Jobs. Premetto per correttezza che in questo momento sto scrivendo su un MacBook Pro. I prodotti della Apple sono in genere ottimi, dal punto di vista dell'hardware i migliori disponibili. Non c'è dubbio che il sistema operativo sia affidabile e facile da usare. Per questo ho scelto un Mac e sono un utente soddisfatto. Ma questo non fa certo di me un seguace di questa nuova religione che adora la Mela Morsicata.

Va anche detto che questa qualità si paga cara. Per i suoi prezzi elevati e per il design il Mac è diventato una specie di status symbol ostentato da chi, come il “rottamatore” Matteo Renzi, deve – proprio come Berlusconi – nascondere sotto una patina di finta modernità, l'assenza totale di contenuti e di idee.

Che Steve Jobs sia stato un genio dell'informatica è un luogo comune assai discutibile. Jobs non era Alan Turing o Edsger W. Dijkstra. Non mi risulta che abbia inventato un algoritmo innovativo né che abbia lavorato a dimostrare che P ≠ NP. E se anche così fosse, non è detto che un genio sia necessariamente una persona da ammirare in tutto e per tutto. Per esempio John von Neumann è stato, lui sì, un genio dell'informatica ma anche un pazzo guerrafondaio che nel 1946 faceva pressione sui militari statunitensi per sganciare la bomba atomica su Mosca. Idea veramente... geniale.

Se c'è stato un campo in cui San Steve si è dimostrato forse un genio, è stato il design, il marketing. Il suo grande risultato è stato riuscire a confezionare un prodotto e di innalzarlo a vero e proprio idolo da adorare religiosamente, accettando ogni imposizione e limitazione della libertà pur di poter utilizzare la sua jail made cool (la galera resa cool, secondo la definizione acida ma azzeccata di Richard Stallman). Grazie a lui una buona marca si è trasformata in qualcosa di più, in una vera e propria religione.

La religione Jobsiana ha un discorso fondante, un moderno Discorso della Montagna, detto il Discorso di Stanford. Questo discorso è stato copiato e incollato fino alla nausea nel giorno della morte del Profeta, facebookato, twittato e googleplussato da una folla entusiasta di discepoli. Se per vostra sventura non l'avete letto, redimetevi e fatelo adesso (fra l'altro esiste anche un'imperdibile versione livornese).

Il Discorso di Stanford, come tutti sanno, è diviso in tre parti. La prima parte si rifà a quel giochino della Settimana Enigmistica dedicato a quelli negati con rebus e parole crociate: unire i puntini (sembra invece che il discorso su “Che cosa apparirà” sia apocrifo).
Non starò qui a farvi il riassunto della storia strappalacrime della ragazza madre, dei genitori adottivi e del ragazzino che dormiva sul pavimento del dormitorio. Ma non posso fare a meno di notare che da quella esperienza personale si potrebbero trarre conclusioni ben diverse (anche senza essere un genio).
Per esempio ci si potrebbe chiedere perché mai il sistema universitario negli Stati Uniti invece di garantire il diritto all'istruzione a un giovane meritevole lo costringa a mandare in rovina la famiglia per pagarsi gli studi. Eppure anche il più irriducibile repubblicano sarebbe costretto ad ammettere che quel ragazzino avrebbe meritato di studiare, se poi ha dimostrato di essere l'incarnazione del Mito Americano, se da quel nessuno che era è diventato un miliardario di successo. Invece s'è ritrovato alla mensa degli Hare Krishna costretto a cantare i mantra in cambio di un tozzo di pane. Così va la vita.

Il problema è che il mito americano ha anche un odioso corollario, ben illustrato da Howard W. Cambell, un personaggio creato da Kurt Vonnegut 
"Ogni altro paese ha tradizioni popolari che parlano di uomini poveri ma molto saggi e virtuosi, e quindi più stimabili di qualsiasi individuo ricco e potente. Per gli americani poveri non esistono leggende del genere; loro deridono se stessi e esaltano quelli più ricchi di loro. I ristoranti e i caffè più modesti, di proprietà a loro volta di gente povera, hanno spesso sul muro una scritta con questa crudele domanda: 'Se sei tanto intelligente, perché non sei ricco?'.”
Invece di affrontare questa questione spinosa, Jobs svicola in un discorso sulla tipografia e i caratteri a spaziatura variabile, vantando un primato che esiste solo nella sua immaginazione, dato che prima di lui era arrivato Donald Knuth (vero genio dell'informatica) con il suo TeX.

La seconda parte del Discorso di Stanford parla di amore e di perdita. Si potrebbe riassumere così: “Beati quelli che vengono licenziati perché poi verranno di nuovo assunti, non in cielo, ma alla Apple e ritorneranno a essere amministratori delegati”. Nel “periodo più creativo della sua vita” alla NeXT, Jobs colleziona una serie di idee fallimentari, progetta modelli di PC dai prezzi spropositati, e si salva soltanto grazie a un filmino di cartoni animati fatti al computer. Insomma gli è andata di lusso, e si è ritrovato a chiacchierare di amore e fiducia ai laureati di Stanford. Se invece gli fosse andata male si sarebbe ritrovato sotto un ponte a parlare di odio e diffidenza ai barboni di Palo Alto. Così va la vita.


La terza parte del discorso parla della morte. Più o meno il succo è questo: Jobs era felice e contento, ricco sfondato, tutto andava benissimo. Sul più bello gli diagnosticano un tumore e gli annunciano che sarebbe morto di lì a pochi mesi. Così va la vita.

L'occasione è giusta per propinarci un po' di luoghi comuni sulla vita e sulla morte. Ma, caro Steve, il tema è vecchio quanto l'uomo e in molti l'hanno già svolto meglio di te. Per esempio Seneca scriveva nel De brevitate vitae:

Ognuno brucia la sua vita e soffre per il desiderio del futuro, per il disgusto del presente. Ma chi sfrutta per sé ogni ora, chi gestisce tutti i giorni come una vita, non desidera il domani né lo teme. Non c'è ora che possa apportare una nuova specie di piacere. Tutto è già noto, tutto goduto a sazietà. Del resto la sorte disponga come vorrà: la vita è già al sicuro. Le si può aggiungere, non togliere, e aggiungere come del cibo ad uno già sazio e pieno, che non ha più la voglia ma ancora la capienza. Non c'è dunque motivo di credere che uno sia vissuto a lungo perché ha i capelli bianchi o le rughe: non è vissuto a lungo, ma ha esistito a lungo.
Non ti offendere Steve, ma è scritto molto meglio, ed è molto più profondo di ogni tuo insegnamento. Sei arrivato con quei duemila anni di ritardo. Anzi, con i tuoi inviti a seguire il cuore, più che Seneca mi sembri la Susanna Tamaro della Silicon Valley.

Ma consolati, la tua morte è servita alla causa. Grazie a molti che non hanno seguito i tuoi consigli e vivono secondo il pensiero di altre persone (in particolare secondo il tuo pensiero), ultimamente c'è stato un boom nelle vendite degli iPad. Tim Cook ne sarà soddisfatto. Così va la vita.
 

24 settembre 2011

Nuova sensazionale scoperta al CERN di Ginevra

GINEVRA - C'è la conferma ufficiale: la soglia della massima ignoranza finora misurata sperimentalmente è stata superata. L'esperimento PDL (Political Deliberate Lobotomy) ha prodotto un nuovo tipo di particelle elementari, mai osservate precedentemente, dette gelmini. I gelmini sono particelle dalla massa cerebrale estremamente ridotta che interagiscono distruttivamente con tutto ciò con cui vengono a contatto. Durante l'esperimento, ad esempio, l'intera ricerca scientifica italiana è stata completamente annichilita.

"Questo risultato è una completa sorpresa" ha osservato il responsabile del rivelatore PDL, "dopo la scoperta del berluscone alcuni anni fa, pensavamo di aver raggiunto il limite teorico della cialtroneria, ma i gelmini sembrano superarlo di diversi ordini di grandezza". Inoltre i gelmini sono "un tipo di particelle non previsto nel Modello Standard, e men che meno ci si aspettava che potessero assumere la carica di ministro".

Nella foto la conferma sperimentale della soglia d'ignoranza ampiamente superata dai gelmini.


09 settembre 2011

Niente è gratis?


Il presidente cileno Sebastian Piñera ha recentemente dichiarato, sulle orme della più fedele amica di Augusto Pinochet - Miss Maggie Thatcher - che a questo mondo tutto ha un prezzo, niente è gratis e che Camila Vallejo può gridare quanto vuole che "l'educazione è un diritto" ma lui continuerà a considerarla una merce, soggetta come qualsiasi altra alle inflessibili leggi del mercato.


Questo bel commento di Marco Valdo M.I. alla canzone  di Fabrizio De André Un Medico, tratta dall'Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters è una buona risposta a quel discorso.

Salve a te, Lucien l'asino, il mio amico venuto dalla notte dei tempi, dal fondo di questa civilizzazione fuori dalla storia dove l'asino vive in fratellanza con il contadino. È con grande piacere che ti faccio ascoltare una canzone di Fabrizio De André, una canzone che racconta una storia che dev'esserti familiare, tu che a Gagliano sei stato accanto al dottor Levi, ai somari e alla mula dell'arciprete.

Salve et vale, Marco Valdo M.I. amico mio, mi ricordo molto bene delle argille di Lucania, dei crepuscoli rossi, dei venti d'inverno e della strega. Mi ricordo molto bene di quei bambini che dipingeva il pittore torinese confinato lassù tra quelle fredde colline.

Ti dicevo che la canzone di De André ti ricorderà quei tempi, ma la canzone non racconta direttamente la storia di « Cristo si è fermato a Eboli », anche se in sostanza, tratta lo stesso argomento. Mi spiego meglio. Ti ricorderai certamente che Carlo Levi era un medico e forse potremmo dire medico suo malgrado, anche se aveva una sorella che fu una grande psichiatra, anche se avrebbe pututo diventare anche lui un grande medico... ne aveva la levatura e le conoscenze. Ma ecco, ha scelto di essere pittore e fu in seguito, ma solo in seguito, scrittore.

Ah sì, so bene tutto questo. So anche che l'hanno spedito - per la sua resitenza al regime - dopo un soggiorno in prigione a Torino e a Roma, al confino in Lucania. Ma qual è il rapporto con la canzone?

carlo levi lucaniaSemplicemente questo, Lucien l'âne amico mio, che dacché i contadini, i braccianti, i somari seppero che Carlo Levi era medico, vennero a chiedere il suo aiuto per salvare uno dei loro che stava per morire, per curare le loro donne e i loro bambini... Dottore, dottore... E Levi, anche suo malgrado, si mise a curare, si mise a fare il dottore. Ma gli altri dottori del comune, privati dei loro malati, dei loro pazienti, accumularono rapidamente il rancore, ed un giorno, ebbri di collera, si armarono delle loro relazioni e tramite il prefetto fascista fecero proibire a Carlo Levi di continuare a curare la popolazione. Bisogna dire che li curava gratuitamente. Ed ecco il collegamento con la canzone di De André. Curare gratuitamente i propri "fratelli umani...". La medicina tariffata non ama questa idea e la società costituita nemmeno, d'altronde.

E perché mai?, disse Lucien l'asino. Cos'è che gli dà fastidio?

Vedi, Lucien l'âne amico mio, nel paese degli uomini, tutto deve avere una tariffa, tutto deve essere a pagamento... In modo da assicurare la richezza ai ricchi e da opprimere i poveri. Semplicemente è la regola di base del sistema di sfruttamento dei poveri da parte dei ricchi. Nella realtà la ricchezza non esiste. È un'invenzione dei ricchi, destinata a spezzare il meccanismo fondamentale dell'umanità che è la solidarietà tra le persone e anche, stai tranquillo, con gli animali. Siamo tutti, tutto sommato, sulla stessa barca chiamata Terra. "Terra, terra, sì, sei tu, terra, terra, che dai la gioia...". Una visione futurista in qualche modo. Ai tempi nostri, invece è la Guerra dei Centomila Anni dei ricchi contro i poveri per consolidare e aumentare le loro ricchezze, i loro domini, i loro privilegi e i loro poteri.

Immaginati, se il medico cura gratuitamente, perché non dovrebbe essere gratuito l'ospedale, o il cibo stesso, o l'istruzione, o il riscaldamendo, il trasporto... Tutto, insomma. Tutto diventerebbe gratuito... È la grande battaglia dei nostri tempi, di tutti i tempi... Fare sparire la ricchezza e i ricchi affinché tutti gli esseri siano felici ed uguali... per quanto possibile.

Ma ecco, visto dalla parte di quelli che vogliono avere più degli altri, quelli che vivono di arroganza e di avidità, la domanda che sorgerebbe spontanea: come si fa ad essere ricchi in un mondo dove tutto è gratuito... e continuare a valere più degli altri? Sarebbe impossibile e i loro ego, i loro ego, poveretti, ne soffrirebbero tantissimo. Qui sta il busillis, ecco il nodo della Guerra dei Centomila Anni. Tutto ciò che è gratuito deve sparire, anche nelle relazioni tra gli esseri umani, anche nell'amore. Tutto deve diventare a pagamento. Ed è il senso dell'antifona ecclesiastica: "Guadagnerai il pane con il sudore della fronte"... Ecco quello che si dice ai contadini, non ai ricchi naturalmente, per loro suona "Guadagnerai il pane con il sudore della fronte degli altri.".

D'altra parte nella canzone di Fabrizio de André, vedrai la vendetta che i ricchi perpetrano sul medico che cura gratis, e sulla sua famiglia, su sua moglie e sui figli... Finiscono persino per farlo rinchiudere. Comunque, anche da noi, nella mia città fino a ieri, e ancora oggi, l'establishment, i ricchi fanno guerra ai dottori del popolo, che curano a titolo gratuito.

Ragione in più, disse Lucien l'asino drizzando il suo pelo nero e lucente come la piuma della cornacchia, ragione in più per tessere, ancora e sempre, il sudario di questo mondo decisamente vecchio, sordido ed arcigno.

Così parlarono Marco Valdo M.I. e Lucien l'âne.

19 febbraio 2011

Esegesi dell'Inno di Mameli / Novaro

Il Benigni a Sanremo, nonostante le promesse, di questo benedetto inno non ne ha parlato poi tanto. Poi da un po' di tempo non fa neanche più ridere e questa retorica sul Risorgimento e sui re gentiluomini è francamente noiosa. Ho pensato allora che l'esegesi dell'inno italiano l'avevo già fatta anni fa, quindi vi ripropongo - con qualche piccolo adattamento - un pezzo che avevo scritto nel 2002. Naturalmente qualche riferimento è decisamente datato.

In questo momento l'inno nazionale gode di un'inedita popolarità... sarà per merito (o per colpa?) del presidente Ciampi, sarà per i mondiali. Lunedì ho visto la partita con l'Ecuador e quando hanno suonato l'inno, tutti si sono alzati in piedi (ci siamo, via, non potevo mica restare seduto...). Molti cantavano, mentre il Trap biascicava e Totti sorrideva. Non dico che non sia una bella cosa riscoprirci tutti così italiani in occasione di una partita di calcio, però sono convinto che se avessimo cantato Va' pensiero sarebbe stato un momento toccante, almeno grazie alla musica... con Fratelli d'Italia invece la scena era vagamente comica.

Obiettivamente bisogna ammettere che come composizione Fratelli d'Italia (anzi il Canto degli Italiani come l'aveva intitolato Mameli) non è esattamente un capolavoro. La musica è, più che una marcia... una marcetta... Il compositore che scrisse la musica, un certo Michele Novaro, non fu certo un secondo Giuseppe Verdi: era un maestro di musica genovese che fece una modesta carriera a Torino scrivendo un'opera buffa in dialetto genovese e che sarebbe stato tranquillamente consegnato all'oblio se non avesse scritto la musica di quello che poi sarebbe diventato l'inno nazionale. Anzi, in realtà è stato dimenticato lo stesso dato che tutti parlano dell'Inno di Mameli, ignorando il povero Novaro, che morì in povertà (potevano almeno chiamarlo l'inno di Mameli/Novaro, come Mogol/Battisti).

Goffredo Mameli Goffredo Mameli, anch'egli genovese, nacque nel 1827. Era un ragazzo di vent'anni, mazziniano e seguace di Garibaldi quando scrisse i versi che sarebbero diventati l'inno italiano solo nel 1946 con la nascita della Repubblica (l'inno del Regno d'Italia era la Marcia Reale, non certo i versi di quel repubblicano di Mameli!). Insomma bisogna anche capire il momento storico in cui quei versi furono scritti. Si dice che tutti a vent'anni scrivono poesie; chi continua o è un poeta o un cretino... non sapremo mai a quale categoria appartenesse il povero Mameli perché morì per le conseguenze di una ferita alla gamba riportata mentre si batteva per la repubblica di Roma nel 1849 a soli 22 anni.

I versi, pieni della retorica e del romanticismo dell'epoca, sono praticamente sconosciuti a mezza Italia, non solo ai calciatori. Gran parte degli italiani continua a cantare "Stringiamoci a corte" invece di "Stringiam'ci a coorte", perché nessuno gli ha insegnato cos'è una coorte ma forse anche perché si rendono conto inconsciamente di che orrore di licenza poetica sia "stringiam'ci"...

Alla prima strofa ne seguono altre quattro completamente sconosciute... possiamo onestamente criticare Trapattoni se non canta "Noi siamo da secoli/ calpesti, derisi / perché non siam popolo / perché siam divisi" prima di una partita della Nazionale? Ammetterete che, oltre che ricordare i versi "Quando ero piccolo / tutti mi scherzavano...", porta un po' sfiga?

Il buon Mameli scriveva sinceramente "Siam pronti alla morte" e infatti morì per i suoi ideali... ma voi vi sentite pronti alla morte per l'Italia?!? Io, onestamente, proprio no! Come cantava Brassens "moriamo per delle idee, d'accordo, ma di morte lenta!".

Tornando al nostro caro inno il momento più divertente arriva nell'ultima strofa quando Mameli se la prende con gli austriaci: "Gia l'Aquila d'Austria/ Le penne ha perdute. / Il sangue d'Italia,/ Il sangue Polacco,/ bevé col cosacco/ Ma il cor le bruciò"... però insomma i tempi cambiano ed è un po' da bastardi ricordare ancora oggi agli amici austriaci la caduta di un impero accaduta cent'anni fa. Poi perché prendersela tanto con l'Austria se lo Stato Sabaudo era sicuramente più reazionario e illiberale dell'Impero Austrungarico, tanto che gran parte degli abitanti delle terre "irredente", Trento e Trieste, dopo l'annessione all'Italia rimpiangeva la dominazione austriaca? Ma di questo non si può certo rimproverare il povero Mameli, che era repubblicano e democratico!

I figli d'Italia / Si chiaman Balilla... questo Balilla non c'entra molto con i balilla fascisti (e neanche con il calciobalilla), era il nomignolo di un ragazzo che durante la sommossa scoppiata a Genova nel 1746 tirò un sasso contro l'esercito austriaco... anche noi abbiamo avuto la nostra intifada. Ma vaglielo a dire ai nostri politici italianissimi, tutti invariabilmente filo-israeliani...

Ad essere sinceri bisogna dire che anche negli altri paesi non è che se la passino meglio di noi: la Germania ha potuto conservare solo una strofa dell'inno perché tutto il resto era una specie di apologia del nazismo, gli spagnoli non hanno salvato una sola parola dell'inno scritto ai tempi di Francisco Franco e devono cantare "Mmmmm.... Mmmmm..." un po' come i Crash Test Dummies. Anche la gloriosa Marsigliese ha un testo molto pulp con molto sangue sparso per le strade, donne sventrate, teste tagliate e altre delizie di questo genere.


Cosa salvare allora? Forse solo le rivisitazioni dissacranti. Hendrix che distorce The Star Spangled Banner a Woodstock, Serge Gainsbourg e la sua versione reggae della Marsigliese e, perché no, i CCCP dell'epoca in cui Mastro Lindo non si era ancora completamente bruciato il cervello che reinterpretano l'inno sovietico. Ma per Fratelli d'Italia c'è ben poco da dissacrare. Non ha proprio niente di sacro.



18 febbraio 2011

Il colore della terra


Il nuovo album di Pj Harvey, Let England Shake, è bellissimo, dalla prima all'ultima canzone. Si chiude con una perla che potrebbe essere una canzone folk scritta ai tempi della battaglia di Gallipoli. Il testo è semplice e tremendo. Si intitola The Colour of the Earth.

Louis era il mio più caro amico
combatté nella trincea del corpo di spedizione australiano e neozelandese
Louis corse in avanti dalla prima linea
non l'ho più visto
Più tardi nell'oscurità
Mi sembrò di sentire la sua voce
che chiamava la madre, e poi me
Ma non ce l'ho fatta a raggiungerlo
È ancora lassù su quella collina
Vent'anni su quella collina
Nient'altro che un mucchio d'ossa
Ma ancora penso a lui
E se me lo chiedessero risponderei
che il colore della terra quel giorno
era un rosso opaco e bruno
il colore del sangue, direi

04 gennaio 2011

Morgane de toi

La canzone dedicata ai figli è una tappa obbligata a cui ben pochi cantautori sono sfuggiti. I più bravi hanno scritto canzoni bellissime e commoventi, come Culodritto di Guccini o Figlia di Vecchioni, i meno bravi sono scaduti nel sentimentale e nel melenso.

bac sable


Ma questa Morgane de toi, forse il pezzo più famoso di Renaud, è impareggiabile. Sincera, ironica e divertente, è diventata quasi immediatamente un classico del pop francese.

morgane de toi video


Il videoclip, diretto da un altro grande della canzone francese, Serge Gainsbourg, è un piccolo capolavoro. Girato sulla dune della spiaggia di Touquet, vede la partecipazione di Bambou, all'epoca la compagna di Gainsbourg, nel ruolo della ragazza a cavallo sulla spiaggia che vuole probabilmente simboleggiare, nonostante il tono iperprotettivo di alcune strofe della canzone, il desiderio che la figlia crescendo diventi una donna libera e indipendente.


Renaud - Morgane de toi
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Desiderio sicuramente avveratosi: oggi Lolita Sechan è una scrittrice di successo e avrà senz'altro perdonato al padre di averla chiamata così!

lolita  sechan

C'è un mariolo, avrà almeno quattro anni
vuole fregarti la paletta e il secchiello
le mutandine con dentro le caramelle
Lolita difenditi, assestagli un colpo di rastrello sulla schiena

Aspetta un po' prima di farti metter nei casini
da questi piccoli machos che pensano solo ad una cosa
giocare al dottore non convenzionato
ci ho giocato anch'io, so di cosa parlo

Li conosco bene i playboys che giocano nella sabbia
ci provavo con le loro madri prima di conoscere la tua
se gli dai retta ti faranno portare la cartella
per fortuna ci sono qua io che ti guardo e ti voglio bene

Lola
non sono che un fantasma quando vai dove non ci sono
Lo sai, bambina mia
che sono pazzo di te

Visto che mi son rotto di farmi tatuare degli aggeggi
che mi formano una specie di fumetto sulla pelle,
ho scritto il tuo nome con dei chiodi dorati
uno per uno, piantati nel cuoio della giacca, sulla schiena

Sei l'unica ragazza che riesco a tenere in braccio
senza slogarmi una spalla, senza piegarmi sotto il tuo peso
sei più leggera di un passerotto che non mangia
non spiegare mai le tue ali, Lolita, non prendere il volo

Con quelle chiappe che sembrano delle noccioline
e la pelle più dolce di una pasta al cioccolato
rischi di far venire fame ad un sacco di ragazzini
quando andrai a scuola, se mai ci andrai

Lola
non sono che un fantasma quando vai dove non ci sono
Lo sai, bambina mia
che sono pazzo di te

Cosa mi racconti, vuoi un fratellino
vuoi che ti compri un amico Pierrot
Eh.. i bambini non si trovano mica nei supermercati
e non credo che tua madre voglia che gliene faccia uno di nascosto

E poi Lola non stiamo bene insieme?
non credi che siamo già abbastanza numerosi?
non senti questo rumore, è il mondo che trema
sotto le urla dei bambini che sono infelici

Dai, vieni con me, ti faccio salire sulla mia galea
nella mia arca c'è spazio per tutti i marmocchi
prima che questo mondo diventi un gran cimitero
bisogna approfittare un po' del vento a favore

Lola
non sono che un fantasma quando vai dove non ci sono
Lo sai, bambina mia
che sono pazzo di te

Per Valentina


Valentina e Lorenzo