02 novembre 2011

Il Discorso di Stanford è una cagata pazzesca


La morte, si sa, santifica chiunque. Cossiga, quello che mandava i blindati contro gli studenti, è stato unanimemente salutato alla morte come un grande statista. Quando il diavolo si porterà all'inferno quel mafioso di Andreotti dovremmo probabilmente assistere a un commosso discorso di Napolitano che elogia il padre della Patria. Così va la vita.

Per questo non mi sono certo stupito della beatificazione del “genio dell'informatica” Steve Jobs. Premetto per correttezza che in questo momento sto scrivendo su un MacBook Pro. I prodotti della Apple sono in genere ottimi, dal punto di vista dell'hardware i migliori disponibili. Non c'è dubbio che il sistema operativo sia affidabile e facile da usare. Per questo ho scelto un Mac e sono un utente soddisfatto. Ma questo non fa certo di me un seguace di questa nuova religione che adora la Mela Morsicata.

Va anche detto che questa qualità si paga cara. Per i suoi prezzi elevati e per il design il Mac è diventato una specie di status symbol ostentato da chi, come il “rottamatore” Matteo Renzi, deve – proprio come Berlusconi – nascondere sotto una patina di finta modernità, l'assenza totale di contenuti e di idee.

Che Steve Jobs sia stato un genio dell'informatica è un luogo comune assai discutibile. Jobs non era Alan Turing o Edsger W. Dijkstra. Non mi risulta che abbia inventato un algoritmo innovativo né che abbia lavorato a dimostrare che P ≠ NP. E se anche così fosse, non è detto che un genio sia necessariamente una persona da ammirare in tutto e per tutto. Per esempio John von Neumann è stato, lui sì, un genio dell'informatica ma anche un pazzo guerrafondaio che nel 1946 faceva pressione sui militari statunitensi per sganciare la bomba atomica su Mosca. Idea veramente... geniale.

Se c'è stato un campo in cui San Steve si è dimostrato forse un genio, è stato il design, il marketing. Il suo grande risultato è stato riuscire a confezionare un prodotto e di innalzarlo a vero e proprio idolo da adorare religiosamente, accettando ogni imposizione e limitazione della libertà pur di poter utilizzare la sua jail made cool (la galera resa cool, secondo la definizione acida ma azzeccata di Richard Stallman). Grazie a lui una buona marca si è trasformata in qualcosa di più, in una vera e propria religione.

La religione Jobsiana ha un discorso fondante, un moderno Discorso della Montagna, detto il Discorso di Stanford. Questo discorso è stato copiato e incollato fino alla nausea nel giorno della morte del Profeta, facebookato, twittato e googleplussato da una folla entusiasta di discepoli. Se per vostra sventura non l'avete letto, redimetevi e fatelo adesso (fra l'altro esiste anche un'imperdibile versione livornese).

Il Discorso di Stanford, come tutti sanno, è diviso in tre parti. La prima parte si rifà a quel giochino della Settimana Enigmistica dedicato a quelli negati con rebus e parole crociate: unire i puntini (sembra invece che il discorso su “Che cosa apparirà” sia apocrifo).
Non starò qui a farvi il riassunto della storia strappalacrime della ragazza madre, dei genitori adottivi e del ragazzino che dormiva sul pavimento del dormitorio. Ma non posso fare a meno di notare che da quella esperienza personale si potrebbero trarre conclusioni ben diverse (anche senza essere un genio).
Per esempio ci si potrebbe chiedere perché mai il sistema universitario negli Stati Uniti invece di garantire il diritto all'istruzione a un giovane meritevole lo costringa a mandare in rovina la famiglia per pagarsi gli studi. Eppure anche il più irriducibile repubblicano sarebbe costretto ad ammettere che quel ragazzino avrebbe meritato di studiare, se poi ha dimostrato di essere l'incarnazione del Mito Americano, se da quel nessuno che era è diventato un miliardario di successo. Invece s'è ritrovato alla mensa degli Hare Krishna costretto a cantare i mantra in cambio di un tozzo di pane. Così va la vita.

Il problema è che il mito americano ha anche un odioso corollario, ben illustrato da Howard W. Cambell, un personaggio creato da Kurt Vonnegut 
"Ogni altro paese ha tradizioni popolari che parlano di uomini poveri ma molto saggi e virtuosi, e quindi più stimabili di qualsiasi individuo ricco e potente. Per gli americani poveri non esistono leggende del genere; loro deridono se stessi e esaltano quelli più ricchi di loro. I ristoranti e i caffè più modesti, di proprietà a loro volta di gente povera, hanno spesso sul muro una scritta con questa crudele domanda: 'Se sei tanto intelligente, perché non sei ricco?'.”
Invece di affrontare questa questione spinosa, Jobs svicola in un discorso sulla tipografia e i caratteri a spaziatura variabile, vantando un primato che esiste solo nella sua immaginazione, dato che prima di lui era arrivato Donald Knuth (vero genio dell'informatica) con il suo TeX.

La seconda parte del Discorso di Stanford parla di amore e di perdita. Si potrebbe riassumere così: “Beati quelli che vengono licenziati perché poi verranno di nuovo assunti, non in cielo, ma alla Apple e ritorneranno a essere amministratori delegati”. Nel “periodo più creativo della sua vita” alla NeXT, Jobs colleziona una serie di idee fallimentari, progetta modelli di PC dai prezzi spropositati, e si salva soltanto grazie a un filmino di cartoni animati fatti al computer. Insomma gli è andata di lusso, e si è ritrovato a chiacchierare di amore e fiducia ai laureati di Stanford. Se invece gli fosse andata male si sarebbe ritrovato sotto un ponte a parlare di odio e diffidenza ai barboni di Palo Alto. Così va la vita.


La terza parte del discorso parla della morte. Più o meno il succo è questo: Jobs era felice e contento, ricco sfondato, tutto andava benissimo. Sul più bello gli diagnosticano un tumore e gli annunciano che sarebbe morto di lì a pochi mesi. Così va la vita.

L'occasione è giusta per propinarci un po' di luoghi comuni sulla vita e sulla morte. Ma, caro Steve, il tema è vecchio quanto l'uomo e in molti l'hanno già svolto meglio di te. Per esempio Seneca scriveva nel De brevitate vitae:

Ognuno brucia la sua vita e soffre per il desiderio del futuro, per il disgusto del presente. Ma chi sfrutta per sé ogni ora, chi gestisce tutti i giorni come una vita, non desidera il domani né lo teme. Non c'è ora che possa apportare una nuova specie di piacere. Tutto è già noto, tutto goduto a sazietà. Del resto la sorte disponga come vorrà: la vita è già al sicuro. Le si può aggiungere, non togliere, e aggiungere come del cibo ad uno già sazio e pieno, che non ha più la voglia ma ancora la capienza. Non c'è dunque motivo di credere che uno sia vissuto a lungo perché ha i capelli bianchi o le rughe: non è vissuto a lungo, ma ha esistito a lungo.
Non ti offendere Steve, ma è scritto molto meglio, ed è molto più profondo di ogni tuo insegnamento. Sei arrivato con quei duemila anni di ritardo. Anzi, con i tuoi inviti a seguire il cuore, più che Seneca mi sembri la Susanna Tamaro della Silicon Valley.

Ma consolati, la tua morte è servita alla causa. Grazie a molti che non hanno seguito i tuoi consigli e vivono secondo il pensiero di altre persone (in particolare secondo il tuo pensiero), ultimamente c'è stato un boom nelle vendite degli iPad. Tim Cook ne sarà soddisfatto. Così va la vita.