Il
signor Armando Penna, direttore di un’importante testata nazionale
con sede a Milano, si era messo in testa di assumere un giornalista
italiano. Gli unici requisiti erano che sapesse scrivere in un
italiano decente e che avesse assimilato le basi del giornalismo,
quelle che gli anglosassoni chiamano le Five Ws. Si suppone infatti,
aveva scritto a chiare lettere, che un qualunque giornalista dovrebbe
prima di tutto in un articolo riportare le risposte alle seguenti
domande: cosa è successo (What) dove (Where) quando (When) e chi era
coinvolto (Who). I più dotati avrebbero potuto poi anche azzardare
un’ipotesi sul perché (Why).
Suggestionato
dal fatto che ormai il nostro paese è stracolmo di tuttologi pronti
ad esprimere per iscritto le proprie opinioni, anche se
principalmente sulle reti sociali, si preparava a fronteggiare
frotte di aspiranti, come quando si tratta di confutare decenni di
studi scientifici sull’efficacia dei vaccini.
Invece
ha rimediato deserti sconfinati di silenzio, interrotti da branchi di
presuntuosi che contestavano questa sua assurda richiesta di
attenersi ai fatti o, ancora peggio, di controllare le fonti.
Un
ragazzo gli ha detto che persino Roberto Saviano aveva venduto
milioni di copie di un libro che si apre con la suggestiva immagine
dei cinesi morti che cadevano a decine dai container nel porto di
Napoli. Ma peccato che quella storia non avesse nessun riscontro, che
non risultasse negli archivi dei tribunali nessuna inchiesta che pure
si sarebbe dovuta aprire per un caso tanto grave. A Saviano glielo
aveva raccontato suo cugino, che aveva un amico che aveva una ragazza
che aveva un fratello che lavorava come gruista nel porto. Quello che
si dice una “fonte riservata”. E allora, gli aveva detto il
ragazzo, se Saviano non controlla le fonti perché mai dovrei farlo
io? L’importante è che la storia sia appetibile per il pubblico e
faccia audience. Non voleva, il direttore, che il suo
giornale vendesse più copie?
Un’altra
ragazza si è dichiarata disponibile a scrivere una breve colonna
quotidiana, però per favore che non la mandassero in giro sul posto
a vedere quello che succedeva nel mondo. Insomma, il mestiere del
giornalista potrebbe essere pericoloso, perché mai andare nei paesi
dove c’è la guerra, potrei rischiare di essere rapita dall’ISIS
o arrestata dalla polizia turca. Come è successo a quel Gabriele Del
Grande, un pazzo che si ostina a viaggiare e a intervistare persone
vere, quando al giorno d’oggi basta andare sul profilo facebook del
terrorista o del protagonista dell’ultimo fattaccio di cronaca nera
per scrivere un bell’articolo d’effetto. Ma insomma lo vogliamo
ringraziare il signor Zuckerberg che ci ha fornito a poco prezzo la
schedatura di tutti gli abitanti del pianeta con un’efficienza da
fare invidia alla STASI?
Il
direttore le ha provate tutte, persino a buttarla sul ridere
assicurando che lo stipendio sarebbe stato pagato in euro e in base
all’attendibilità degli articoli e non in base ai “like”
ricevuti o con una somma inversamente proporzionale alla lunghezza
dei periodi. Ma alla fine della risata si è immalinconito anche lui.
Può
darsi che, a dispetto delle apparenze, la situazione non sia ancora
così disperata da rendere appetibile un lavoro che prevede di dover
essere ospite settimanalmente al programma di Fabio Fazio. Resta il
fatto che il più grande quotidiano italiano ha come vicedirettore un
tizio che si permette di giudicare un’intera categoria in base a
chiacchiere di corridoio, sputando sentenze comodamente seduto al
suo posto strapagato quando sarebbe, lui sì, bisognoso di esperienze
pratiche. E soltanto un paese squinternato come il nostro può
continuare a dargli retta e ad ascoltare i suoi sproloqui, come se
fossero mai valsi qualcosa.
(Ogni riferimento è puramente casuale)
(Ogni riferimento è puramente casuale)
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