Nelle prime pagine Handke non risparmia critiche alle semplificazioni colpevoli di stampa e televisioni europee, impegnate a cercare per le guerre jugoslave una divisione manichea che distinguesse i buoni dai cattivi, nel tentativo disperato di fare rientrare nei nostri schemi hollywoodiani una realtà complessa che richiederebbe invece risposte complesse. Tuttavia si smarca presto dalla semplice polemica contro i media, rivendicando la differenza della letteratura dal giornalismo, andando a soffermarsi sulle "terze cose", quelle che un giornalista dal suo ufficio di Parigi, Roma o New York non può o non vuole vedere e raccontare. Seguendo la regola d'oro del fratello figlio unico di Rino Gaetano (che non ha mai criticato un film senza prima vederlo), Handke, a differenza di chi non esita ad attaccarlo senza magari aver mai letto un suo libro, ha bisogno di recarsi sul luogo, di vedere, di osservare. Di sedersi sulla sponda della Drina dopo aver cercato la stazione delle corriere (potrà scrivere di Balcani chi non vi ha mai viaggiato su di un pullman? credo di no, sarebbe quindi bene che mi fermassi qui, dato che il tragitto Fiume-Trieste non penso sia sufficiente).
In Italia, a proposito delle guerre dei Balcani, vi sentirete ripetere fino alla noia, spesso da gente che ignora quale sia la capitale della Croazia, della Bosnia o - difficilissimo - del Kosovo, il seguente luogo comune: eh certo, Tito era sì un dittatore, però almeno li ha saputi tenere insieme. Poi quelli già si odiavano da prima, figuriamoci ora. Poi la favoletta semplice semplice delle motivazioni etniche della guerra, che, insieme a una enorme quantità di profughi, ha creato i presupposti per la cancellazione del più evidente esempio della possibilità concreta di convivenza pacifica tra Islam e Occidente, la Bosnia.
Dopo aver fomentato un'impossibile spartizione su base etnica propugnata come unica possibilità per la pace ecco che l'Occidente - qui entra in scena D'Alema - si accorge improssivamente che bisogna fermare la pulizia etnica in Kosovo. Quando, come spiega Paolo Rumiz, le vere ragioni, affaristiche e mafiose, del massacro sono nascoste da ingombranti maschere, ecco che anche la risposta militare appare come inevitabile, ragionevole o persino necessaria. Così nel '99 il nostro paese si è trasformato in un'enorme portaerei da dove decollavano gli F16 pronti a sganciare le bombe umanitarie. Quel maggio a Belgrado, sotto le nostre bombe, democratiche e di sinistra, c'era, insieme ad Erri De Luca, anche Peter Handke.
Forse il motivo per cui Handke è tanto osteggiato non sta tanto nelle sue prese di posizione quanto nel suo continuo procedere per interrogativi, nel mettere in dubbio pressoché tutte le certezze che gli vengono proposte. In una società che ha bisogno di risposte sicure per riuscire ad accettare ciò che altrimenti risulterebbe inammissibile (loro sono i cattivi, dobbiamo bombardarli) il dubitare, l'interrogarsi è visto come una pratica sovversiva e pericolosa. Ancor più dell'antagonista gonfio di certezze opposte ma simmetricamente identiche, chi dubita di ciò che è considerato patrimonio comune incorre in un'unanime censura. Ma non troveremo mai nessuna risposta se smettiamo di porci le domande.